Con l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 26843/2018, depositata in data 23 ottobre 2018, viene sancito che in caso di mancata notifica del verbale di accertamento, la cartella esattoriale è valida.

Il fatto

L’automobilista ha proposto ricorso dinanzi al Giudice di Pace, per far riconoscere la nullità della notificazione dell’atto presupposto.

Proposto l’appello, il Giudice monocratico l’ha rigettato, poiché è stata fondata l’opposizione a cartella, sulla sola deduzione che è mancata la regolare notifica del verbale, senza formulare alcuna ulteriore doglianza.

Il ricorrente propone ricorso per Cassazione.

La pronuncia

I Giudici della Suprema Corte di Cassazione, si sono espressi affermando che: nell’ambito delle opposizioni a sanzioni amministrative, è inammissibile l’opposizione a cartelle di pagamento, ove sia diretto a recuperare il momento di garanzia, con il quale, il soggetto, sostiene di non potere avvalersene per la formazione del titolo per omessa notificazione dell’atto presupposto.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, a conclusione di un procedimento istruttorio promosso nei confronti di Ryanair (e di Wizzair), ha accertato che la compagnia aerea low cost, a seguito della modifica della policy bagagli, ha presentato – e presenta tuttora – in modo ingannevole ai viaggiatori la tariffa standard per i servizi di trasporto aereo.

Il fatto

Fino al 1 novembre 2018, la tariffa standard di Ryanair prevedeva la possibilità per il consumatore di portare con sé un bagaglio a mano grande ed una piccola borsetta da viaggio, con specifiche regole sulla dimensione e sul peso degli stessi.

Già dal 15 gennaio 2018, però, solo chi acquistava il servizio priority portava a bordo dell’aeromobile il trolley bag. Gli altri lo consegnavano al gate per farlo imbarcare.

Per le prenotazioni effettuate a partire dal 1 settembre 2018, riguardanti i voli successivi al 1 novembre 2018, invece, Ryanair ha scorporato dalla tariffa standard la possibilità di trasportare un trolley bag, richiedendo ai consumatori il pagamento di un supplemento per il suo trasporto e consentendo gratuitamente quello della sola borsa piccola.

Le valutazioni dell’AGCM

Secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, le regole in vigore prima del 1 novembre 2018 hanno costituito per anni un punto di riferimento per milioni di consumatori, che si sono abituati e adeguati alle stesse.

La modifica apportata da Ryanair è apparsa idonea a fornire una falsa rappresentazione del reale costo del biglietto aereo, perché ingannevole sulle caratteristiche e sul prezzo del servizio di trasporto aereo di passeggeri offerto dalla compagnia aerea, nonché contraria alla prassi di diligenza professionale nel settore di competenza.

Il “bagaglio a mano grande” è da considerarsi elemento indispensabile del servizio di trasporto aereo. Questo emerge sia, da un lato, dalla sentenza della Corte di Giustizia del 18 settembre 2014 nella causa C-487/12 (Vueling Airlines), e sia, dall’altro, dal fatto che la percentuale di passeggeri che negli ultimi anni hanno viaggiato solo con il bagaglio a mano piccolo è inferiore al 10%.

Così facendo, inoltre, la compagnia aerea ha escluso tutto lo spazio delle cappelliere dalla sua funzione naturale per offrire un servizio a pagamento, senza alcuna alternativa ai viaggiatori se non quella di sostenere un supplemento di prezzo.

Ne consegue che “siamo di fronte ad un supplemento inevitabile per la quasi totalità dei passeggeri e certamente prevedibile che non può venir trasformato dal professionista in un servizio aggiuntivo facoltativo per il quale chiedere un supplemento di prezzo“.

Quella posta in essere è, dunque, una pratica commerciale scorretta, contraria alle regole di diligenza professionale del settore, perché il reale costo di acquisto del servizio di trasporto non corrisponderebbe alla tariffa standard, bensì alla somma di questa con il supplemento relativo al bagaglio a mano.

In conclusione, la modifica alla policy bagagli apportata dalla compagnia aerea low cost ha, in primo luogo, comportato un ingannevole aumento della tariffa standard del servizio di trasporto aereo, scorporando un servizio essenziale, prevedibile e inevitabile per la quasi totalità dei passeggeri e richiedendo per lo stesso un supplemento di prezzo. In secondo luogo, ha alterato l’immediata comparazione con i prezzi offerti dagli altri vettori, perché le tariffe messe a confronto non includerebbero i medesimi servizi.

Sulla base di tali elementi, l’AGCM ha determinato e irrogato nei confronti della compagnia irlandese una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro.

Si apre ora la strada verso i rimborsi che Ryanair dovrà corrispondere per i sovrapprezzi non dovuti pagati dai consumatori.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 3877, depositata in data 08 febbraio 2019, la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, il coniuge che abbandona il tetto coniugale e interrompe l’erogazione dei contributi economici della famiglia, gli venga addebitata la separazione.

Il fatto

La controversia ha riguardato la separazione personale di due coniugi.

Tale vicenda, si è basata sull’abbandono del tetto coniugale da parte del marito, con conseguente richiesta, da parte della moglie, della separazione a carico dello stesso.

La richiesta di addebito della separazione, è scaturita dall’abbandono unilaterale della abitazione e dall’interruzione dei contributi economici della famiglia.

Sul punto, è stato quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3877/2019, ha avvalorato il provvedimento adottato dalla Corte di Appello di Venezia, e ha convalidato l’addebito della separazione nei confronti del coniuge per i motivi che seguono: in primo luogo, l’omesso contributo economico nei confronti e per il mantenimento della famiglia, e in secondo luogo, riguardo all’abbandono del tetto coniugale.

Non è stato accolto il motivo di ricorso che ha enucleato l’avvocato, affermando che, l’uomo, ha abbandonato l’abitazione per intollerabilità della vita con la coniuge.

La Corte, con tale ordinanza, ha voluto ribadire che l’addebito della separazione è previsto sia, per l’abbandono della casa, che per l’interruzione del mantenimento familiare.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La domanda di risarcimento dei danni conseguenti ad affermazioni offensive contenute in scritti difensivi e rivolte nei confronti del giudice che sta trattando la causa deve essere proposta in separato giudizio, ai sensi dell’art. 89 c.p.c..

Il fatto

Nel corso di una causa trattata davanti all’Ufficio del Giudice di Pace di Apricena, la società convenuta ha inserito in un atto giudiziario una serie di considerazioni lesive del prestigio professionale e dell’onore del giudicante, oltre ad aver presentato otto istanze di ricusazione nei suoi confronti, tutte rigettate.

Il Giudice di Pace, allora, ha citato in giudizio questa società per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti, essendo integrati i presupposti per i reati di ingiuria e diffamazione.

Sia il Tribunale di Lucera, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Bari, in secondo, tuttavia, hanno rigettato la domanda per due motivi.

In primo luogo, perché la richiesta avrebbe dovuto essere formulata nei confronti del legale della società, essendo egli l’autore degli atti giudiziari.

In secondo luogo, perché, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la domanda risarcitoria avente ad oggetto frasi offensive contenute negli scritti difensivi presentati davanti all’autorità giudiziaria avrebbe dovuto essere sanzionata nell’ambito dello stesso giudizio.

Il soccombente ha quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 4733, pubblicata il 19 febbraio 2019, la Suprema Corte ha accolto i motivi del Giudice di Pace, perché fondati.

Da un lato, in quanto, essendo le offese rivolte nei confronti del giudice e non nei confronti dell’altra parte processuale o dell’altro difensore, non è applicabile l’art. 89 c.p.c..

Dall’altro lato, in quanto, in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, “il destinatario della domanda (…) è sempre e solo la parte, la quale – se condannata – potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni“.

Il giudice ha dunque correttamente proposto la domanda risarcitoria e ha ricevuto il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 738, pubblicata il 23 ottobre 2018, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Massa ha definito il concetto di lesione del decoro architettonico conseguente alla realizzazione di opere sulle parti in proprietà esclusiva di un condominio.

Il fatto

Il proprietario dell’appartamento posto all’ultimo piano di uno stabile condominiale ha eseguito alcune opere presso la sua abitazione.

Tra queste, ha chiuso il lastrico solare di proprietà esclusiva, ha modificato tutti i parapetto dell’attico, ha aperto una seconda porta d’accesso all’appartamento, ha chiuso alcune finestre del piano casa condominiale e ha demolito la canna fumaria comune.

Gli altri condomini, dunque, lo hanno citato in giudizio per far accertare l’illiceità delle opere realizzate dallo stesso e sentirlo condannare a ripristinare lo stato dei luoghi, avendo le stesse modificato il prestigio del palazzo.

La pronuncia

Il Tribunale toscano ha, preliminarmente, ricostruito la nozione di decoro architettonico come delineata dalla Suprema Corte di Cassazione.

Esso riguarda l’estetica del fabbricato fornita dalle linee e dalle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell’edificio, ma non l’impatto dell’opera con l’ambiente circostante.

L’alterazione dello stesso, allora, deve valutarsi non solo con riferimento all’armonia di dette linee e strutture, ma anche alla modifica dell’originario aspetto di singoli elementi che abbiano una sostanziale autonomia, tale da causare significative ripercussioni pregiudizievoli nella valutazione economica delle singole unità immobiliari.

Il singolo condomino, che esegue opere sulle parti di proprietà esclusiva, altera dunque il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dell’edificio al momento dell’opera, modifica l’avvenenza dell’intero fabbricato, o di parti di esso, e reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dello stesso e delle unità immobiliari in esso comprese.

Nel caso in esame, all’esito dell’istruttoria svolta, il giudice ha ritenuto che le innovazioni realizzate dal condomino dell’ultimo piano non fossero tali da pregiudicare il decoro dell’intero edificio e, quindi, ha respinto tutte le domande proposte dagli attori.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 4147/2019, depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2019, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che il terzo trasportato, in caso di danno, deve essere sempre risarcito dalla compagnia assicuratrice del veicolo, a prescindere dalla responsabilità dei conducenti.    

Il fatto

A seguito di uno scontro tra due veicoli, sono deceduti il conducente di un mezzo e un passeggero, mentre gli altri soggetti hanno riportato solo lesioni.

Una delle compagnie assicuratrici, per far accertare le responsabilità, conveniva in giudizio i danneggiati per richiedere che venisse liquidato il danno entro il massimale in favore dei danneggiati.

I parenti del soggetto deceduto hanno proposto domanda di risarcimento danni nei confronti della assicurazione; inoltre, anche i familiari del passeggero deceduto, citarono in giudizio la propria compagnia assicuratrice.

La pronuncia

Il motivo di ricorso è stato sottoposto alla attenzione della Corte di Cassazione, cercando di inserire la figura del passeggero, come beneficiario di polizza, e quindi, se può agire, ex art. 141 codice delle assicurazioni private, indipendentemente dalla responsabilità del sinistro stradale.

L’assicurazione deve coprire anche i danni al passeggero, nonostante il rapporto che intercorre tra il conducente e lo stesso trasportato, che sorgono da un eventuale incidente stradale.

Il terzo, quindi, può agire nei confronti della compagnia assicuratrice del conducente del veicolo, per avanzare formale richiesta di risarcimento in caso di danni alla sua persona.

La Suprema Corte, per tale presupposto, accoglie il ricorso, dato che la decisione in appello è stata considerata erronea, poichè, il Giudice, non avrebbe dovuto condannare il ricorrente principale a risarcire i trasportati sopravvissuti.

Allo stesso modo, il Giudice di appello, quando ha riformato la sentenza di primo grado, non avrebbe dovuto riconoscere il risarcimento ai familiari del trasportato deceduto, poichè era stata riconosciuta la mancanza di responsabilità nel sinistro stradale.

Studio Legale Damoli

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Con l’ordinanza n. 4306, pubblicata il 14 febbraio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, nell’ipotesi di risarcimento dei danni derivanti da circolazione stradale, devono sempre essere riconosciute le competenze professionali per l’attività svolta dal legale in via stragiudiziale.

Il fatto

A seguito di un sinistro stradale, una Compagnia di Assicurazioni ha offerto ai danneggiati una somma a titolo di risarcimento dei danni.

Questa è stata accettata “a titolo di acconto”, avendo i soggetti lesi richiesto un importo maggiore, oltre alla liquidazione delle spese legali per l’attività svolta dal loro difensore.

Di conseguenza, gli stessi hanno adito il Tribunale di Roma per ottenere il soddisfacimento integrale delle proprie pretese.

I giudici capitolini hanno accolto parzialmente le richieste degli attori, condannando solamente l’Assicurazione a pagare un’ulteriore somma a titolo di ristoro per i danni subiti dagli attori.

Sull’appello formulato avverso detta sentenza, la Corte d’Appello di Roma ha respinto, ancora una volta, la domanda di pagamento delle spese legali stragiudiziali. Secondo i giudici di secondo grado, ai sensi dell’art. 9 del Regolamento attuativo dell’indennizzo diretto per danni da circolazione stradale, non sarebbero dovuti compensi per la consulenza professionale perché l’importo offerto dalla Compagnia è stato comunque accettato.

Sul punto, è stato quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le richieste dei danneggiati, condividendone i motivi di impugnazione.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, infatti, “in tema di risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, (…) sono comunque dovute le spese di assistenza legale sostenute dalla vittima perché il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero quando essa non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore, dovendosi altrimenti ritenere nulla detta disposizione per contrasto con l’art. 24 Cost., e perciò da disapplicare, ove volta ad impedire del tutto la risarcibilità del danno consistito nell’erogazione di spese legali effettivamente necessarie“.

Le spese legali richieste, pertanto, sono certamente dovute e possono essere liquidate anche in conformità alla consolidata prassi giurisprudenziale secondo la quale le spese legali relative alla fase stragiudiziale devono essere liquidate come spese giudiziali, perché attività puramente strumentale a quest’ultima.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la risposta all’interpello n. 54 del 13 febbraio 2019, l’Agenzia delle Entrate ha dichiarato che il medico di base, che esercita la propria attività in regime di convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale, non deve emettere la fattura elettronica a favore della A.S.L. per i compensi percepiti.

Il quesito

Un medico di medicina generale convenzionato con l’A.S.L. (“medico di base” o “medico di famiglia”) ha interpellato l’Agenzia delle Entrate ponendo un duplice quesito.

Da un lato, ha chiesto se, a fronte del mutato quadro normativo, avesse l’obbligo di emettere la fattura elettronica per le prestazioni medico-sanitarie svolte in favore dell’ente.

Dall’altro, se fosse venuto meno l’obbligo di inviare all’Agenzia i dati relativi al cd. spesometro.

Il parere

L’Agenzia delle Entrate ha ricostruito la normativa vigente.

Come noto, ai sensi del D. Lgs. n. 127/2015, dal 1 gennaio 2019 “per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti o stabiliti nel territorio dello Stato, e per le relative variazioni, sono emesse esclusivamente fatture elettroniche“.

Sono, in ogni caso, esenti da tale regola generale sia i contribuenti che rientrano nel “regime dei minimi”, sia quelli che rientrano nel “regime forfetario”.

Altre eccezioni sono costituite, ad esempio, dalle vendite di beni al minuto, dalle prestazioni di trasporto di persone e dalle prestazioni alberghiere.

Questo intervento legislativo, poi, non ha modificato le previsioni del decreto IVA, che dettano le regole relative alla certificazione delle operazioni.

È tuttora in vigore, pertanto, il D.M. 31 ottobre 1974, secondo il quale, per le prestazioni medico-sanitarie, la fattura non è da emettere perché sostituita dal foglio di liquidazione dei corrispettivi.

Infine, ai sensi della Legge n. 205/2017, sempre dal 1 gennaio 2019, per tutti i contribuenti, è stato soppresso l’obbligo di invio dei dati relativi allo spesometro.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 3133/2019, pubblicata l’1 febbraio 2019, la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha confermato il licenziamento disciplinare nei confronti di una dipendente per aver effettuato molteplici accessi a Facebook durante l’orario di lavoro.

Il fatto

Il titolare di uno studio medico ha scoperto che la segretaria, in orario di lavorativo, ha effettuato circa 6 mila accessi al noto social network nel corso di 18 mesi di lavoro e, quindi, ha provveduto a licenziarla.

La lavoratrice ha provveduto ad impugnare il licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Brescia, prima, e la Corte d’Appello della medesima città, poi, hanno respinto i ricorsi, in quanto l’impiegata non ha mai negato di aver effettuato gli accessi contestati e dall’analisi della cronologia del computer alla stessa in uso sono emerse prove univoche del fatto.

Quest’ultima, allora, ha proposto ricorso per cassazione a fronte dell’impossibilità di fondare la decisione dei giudici sul report di cronologia: da un lato, perché non sarebbe possibile dimostrare la genuinità e la riferibilità alla lavoratrice degli accessi e, dall’altro lato, in quanto sarebbero state violate le regole sulla tutela della privacy.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato la censura perché inammissibile.

Quanto alle regole sulla privacy, la questione non è mai stata sollevata nel corso dei giudizi di primo e secondo grado. Essendo nuova, non è stato ammesso il suo ingresso in sede di legittimità.

Quanto all’idoneità probatoria della cronologia, i giudici di merito hanno correttamente valorizzato sia la mancata contestazione degli accessi da parte della dipendente, sia la necessità di inserire le proprie credenziali d’accesso (username e password) per entrare nella pagina personale Facebook.

Non è messa in dubbio, quindi, la riferibilità degli accessi alla lavoratrice.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la recente sentenza n. 3720/2019, pubblicata l’8 febbraio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il pregiudizio esistenziale è risarcibile solo se supera una sufficiente soglia di gravità dei diritti lesi.

Il fatto

L’attore, utilizzando quotidianamente il treno, come migliaia di altre persone durante il giorno, ha lamentato: la scarsa puntualità, le precarie condizioni igieniche dei vagoni, il continuo sovraffollamento e l’impossibilità di trovare posto all’interno per sedersi.

Tutto ciò, secondo lo stesso, gli ha creato un peggioramento sensibile della vita.

Inoltre, per i continui ritardi, ha dovuto modificare la sua vita lavorativa, attinendosi, non tanto agli impegni lavorativi giornalieri, bensì ai cronici ritardi ai quali il soggetto era obbligato a sottostare, apportandogli: ansia, stress e stanchezza cronica.

In primo grado, la domanda attorea era stata accolta; in Appello, al contrario, è stata respinta, poichè non è stato prodotto, nè allegato,  alcunchè per dimostrare il danno non patrimoniale dallo stesso subito.

Il pendolare,avrebbe dovuto dimostrare che, dalla precarietà dei servizi ferroviari, sarebbe derivata una modifica dello stile di vita in senso negativo.

La pronuncia

La Corte, non ha negato in modo assoluto la possibilità di riconoscere il “danno da stress”, però, per l’ammissibilità, deve essere dimostrato un effettivo superamento del limite di tollerabilità.

Deve sussistere una grave e seria violazione di specifici diritti inviolabili della persona.

Gli Ermellini, hanno affermato che il risarcimento non si può riconoscere sulla base di: ritardi, fastidi e noie, poichè vige il principio di tolleranza che ogni concittatino deve avere.

In conclusione,  la Cassazione ha ritenuto di non accogliere la domanda del pendolare, affermando che un risarcimento è ammissibile solo se è stata superata la soglia di sufficiente gravità e compromissione dei diritti lesi, quale limite imprescindibile al risarcimento del danno non patrimoniale.

Studio Legale Damoli

Risarcimento danno non ammissibile per i pendolari