Con la sentenza n. 6281/2019, pubblicata l’8 febbraio 2019, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha precisato che il reato di atti osceni in luogo pubblico, depenalizzato dal D. Lgs. n. 8/2016, sussiste ancora per l’ipotesi di atti commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori, qualora derivi il pericolo che essi vi assistano.

Il fatto

Nel luglio del 2018, un uomo è stato visto masturbarsi in un parco da alcuni passanti, i quali hanno informato un maresciallo di Polizia Locale, che è intervenuto sul posto.

L’uomo è stato tempestivamente identificato ed è stato accertato che a poca distanza molti bambini stavano giocando nel parco.

Dapprima il Tribunale di Tivoli e, in seguito, il Tribunale della libertà di Roma hanno contestato nei suoi confronti il reato di atti osceni, di cui all’art. 527 co. 2 c.p., e hanno disposto la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, ritenendo insussistenti i gravi indizi di colpevolezza.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici di merito, infatti, hanno correttamente valutato la gravità indiziaria.

Hanno ritenuto, in primo luogo, ininfluente la durata degli atti e, secondariamente, hanno tenuto conto della contestazione personale visiva effettuata dall’ufficiale di polizia giudiziaria. Infine, hanno giudicato irrilevante la circostanza secondo la quale l’uomo non fosse completamente nudo.

Inoltre, per pacifica giurisprudenza, il parco pubblico è valutato un luogo abitualmente frequentato da minori, cioè “un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico” e, nel caso di specie, il pericolo concreto è integrato dal fatto che effettivamente molti minori stavano giocando nel parco, i quali avrebbero potuto notare gli atti compiuti dall’uomo.

Studio Legale Damoli

Cass_6281_2019

Con l’ordinanza n. 8438/2018, pubblicata il 5 aprile 2018, la Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale la verifica del conflitto di interessi tra il figlio minore, incapace di stare in giudizio personalmente, ed il genitore deve essere operato in concreto e non in astratto.

Il fatto

Una Banca ha citato in giudizio un intero nucleo familiare, per ottenere la revocazione dell’atto di donazione con cui i genitori hanno donato alle figlie un terreno.

Dapprima il Tribunale di Siracusa e, in secondo grado, la Corte d’Appello di Catania hanno dichiarato l’inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dell’atto di disposizione impugnato nei confronti della stessa Banca.

Una delle figlie ha proposto ricorso per cassazione, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato la sussistenza di un conflitto di interessi tra la ricorrente medesima ed i propri genitori.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno dichiarato il ricorso infondato.

Partendo dal presupposto che il conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale deve essere verificato in concreto e non in astratto, hanno evidenziato che il conflitto tra padre e figlio minore sussisterebbe soltanto qualora i due soggetti si trovassero in posizione di contrasto: cioè quando l’interesse proprio del rappresentante, rispetto all’atto da compiere, mal si concilierebbe con quello del rappresentato.

Non si configurerebbe, invece, nell’ipotesi in cui pur avendo entrambi i soggetti un interesse proprio e distinto al compimento dell’atto, questo corrispondesse al vantaggio comune di entrambi.

Nel caso in esame, l’interesse dei genitori e quello della figlia è risultato coincidente nel fine di sottrarre l’atto di donazione alla revocatoria e, pertanto, non è stato rilevato alcun conflitto.

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Cass_8438_2018

Con la sentenza n. 158/2019, pubblicata l’1 febbraio 2019, la Seconda Sezione del T.A.R. per la Toscana ha confermato il provvedimento con il quale si è disposta la revisione della patente nei confronti di un soggetto che è stato colto da un colpo di sonno nel corso della guida.

Il fatto

Nel 2017, un ragazzo ha causato un incidente a causa di un colpo di sonno che lo ha colto nel corso della guida, senza determinare alcuna lesione, neppure lieve, alle persone coinvolte.

Conseguentemente, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ufficio Motorizzazione Civile di Grosseto, ha disposto la revisione della patente di guida del medesimo soggetto mediante nuovo esame di idoneità psicofisica.

Questo provvedimento è stato impugnato con ricorso davanti il T.A.R. per la Toscana, perché il semplice accadimento di un sinistro non sarebbe idoneo a far sorgere dubbi circa il possesso dei requisiti per la guida.

La pronuncia

I giudici amministrativi hanno respinto detto ricorso.

Il provvedimento impugnato ha individuato le ragioni della decisione non tanto nell’accadimento del sinistro, ma nel fatto che causa dello stesso è stato un probabile colpo di sonno.

Tale probabilità è confermata sia dal verbale della Polizia Municipale intervenuta sul luogo del sinistro, sia dalle dichiarazioni dei testimoni presenti.

Questa circostanza, pertanto, è suscettibile di ingenerare un ragionevole dubbio sull’idoneità del ricorrente alla guida e, quindi, la deliberazione dalla Motorizzazione Civile è pienamente legittima.

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Tar_Toscano

Con la sentenza n. 2905/2019, pubblicata il 22 gennaio 2019, la Quinta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha confermato la condanna nei confronti di un uomo per essere entrato senza autorizzazione nell’account Facebook della moglie.

Il fatto

Un signore ha fatto accesso al profilo del noto social network della consorte, utilizzando il nome utente e la password comunicatele dalla stessa molto tempo prima.

Così facendo, ha scoperto una chat intrattenuta dalla coniuge con un altro uomo, l’ha fotografata e ha cambiato la password d’accesso.

In seguito, ha utilizzato le schermate riproducenti quelle conversazioni nel giudizio di separazione personale.

Dapprima il Tribunale di Palermo e, in secondo grado, la Corte d’Appello della medesima città, hanno condannato il marito per il reato di cui all’art. 615 ter c.p., “accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico“, per aver violato la privacy della moglie senza la sua autorizzazione.

L’imputato ha proposto, quindi, ricorso per cassazione, lamentando la non applicabilità al caso di specie della norma predetta, essendo la password stata comunicata al compagno dalla stessa consorte.

La pronuncia

I giudici del Palazzaccio hanno dichiarato inammissibile il ricorso.

La circostanza che la coniuge avesse fornito le credenziali del proprio account social al marito, realizzando così un’implicita autorizzazione verso lo stesso, non ha escluso il carattere abusivo degli accessi.

Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi“.

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Cass_2905_2019

Con l’ordinanza n. 2748/2019, pubblicata il 30 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui gli agenti di polizia municipale possono accertare tutte le violazioni in materia di sanzioni amministrative alla condizione che siano effettivamente in servizio.

Il fatto

Un Comandante di Polizia Municipale, fuori servizio e con abiti civili, ha colto in flagrante un automobilista nell’effettuare un sorpasso a velocità non adeguata e in prossimità di un’incrocio.

Lo stesso agente, quindi, è intervenuto contestando al conducente del veicolo la violazione dell’art. 148 del Codice della Strada e irrogando la relativa sanzione.

Quest’ultimo ha impugnato il verbale di contestazione dapprima davanti al Giudice di Pace di Modena e, in seguito, dinanzi al Tribunale di Modena, quale giudice di secondo grado.

Entrambe le pronunce ottenute, tuttavia, hanno rigettato la sua opposizione al verbale della Polizia Municipale.

L’automobilista ha, quindi, proposto ricorso per cassazione, deducendo l’illegittimità del verbale per essere stato reso da un agente non in servizio al momento della trasgressione.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno accolto il ricorso in quanto fondato.

Il Tribunale di Modena ha errato nel contrapporre la Polizia Giudiziaria ad “altri corpi”, tra cui la Polizia Municipale, i quali opererebbero su tutto il territorio nazionale e sarebbero sempre in servizio.

In primo luogo, perché la polizia giudiziaria non è un corpo, ma una funzione.

Secondariamente, in quanto, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, “gli appartenenti alla polizia municipale […] hanno la qualifica di agenti di polizia giudiziaria soltanto nel territorio di appartenenza e limitatamente al tempo in cui sono in servizio e ciò a differenza di altri corpi, quali la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza etc., i cui appartenenti operano su tutto il territorio nazionale e sono sempre in servizio“.

Il Comandante che nel caso di specie ha emesso la sanzione amministrativa, pertanto, non rivestendo in quel momento la qualifica di agente di polizia giudiziaria, non avrebbe dovuto redigere alcun verbale di contestazione.

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Cass_2748_2019

Con la sentenza n. 4920/2019, pubblicata il 31 gennaio 2019, la Sesta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha ribadito il principio generale secondo cui la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve ritenersi consentita, nell’ambito del generale potere delle persone di agire per il soddisfacimento dei loro interessi.

Il fatto

Ad un commerciante di cannabis light sono state sequestrate delle infiorescenze, perché risultate contenere THC compreso tra lo 0,52% e lo 0,65%.

Il Tribunale di Macerata ha rigettato l’istanza di riesame proposta dallo stesso rivenditore, in quanto ha ritenuto che la L. n. 242/2016 (intitolata “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”) non riguardi scopi ricreativi, bensì unicamente la coltivazione.

Il proprietario dei beni sequestrati ha, quindi, presentato ricorso per cassazione, ritenendo che il mancato inserimento del commercio di infiorescenze nell’elenco delle attività lecite non escluda che esso sia lecito, qualora vengano rispettati i limiti di THC fissati dalla legge. Sarebbe, infatti, incongruo ritenere lecita la produzione delle infiorescenze e non la commercializzazione, senza alcuna modifica, delle stesse.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del ricorso, annullando l’ordinanza di sequestro preventivo.

I giudici del Palazzaccio hanno ritenuto (conformemente alla giurisprudenza di merito ed alla dottrina) che la liceità della vendita al dettaglio delle infiorescenze sarebbe un corollario logico-giuridico dei contenuti della L. n. 242/2016.

In sostanza, dalla liceità della coltivazione della cannabis è derivata la liceità dei suoi prodotti, contenenti il principio attivo THC inferiore allo 0,6%. La fissazione di detto limite ha rappresentato un ragionevole equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e le conseguenze inevitabili della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.

Il D.P.R. n. 309/1990 (il testo unico in materia di sostanze stupefacenti), che disciplina anche la repressione delle attività illecite, perciò, non può mai riguardare la commercializzazione di prodotti dei quali è riconosciuta la liceità.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 2531/2019, pubblicata il 30 gennaio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che il conducente di un autoveicolo è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero.

Il fatto

A seguito di un incidente stradale, il danneggiato terzo trasportato ha citato in giudizio il proprietario della vettura danneggiante, la compagnia assicurativa di quest’ultimo ed il conducente del veicolo danneggiato, per accertare la responsabilità del primo nella causazione del sinistro ed ottenere il risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non.

Si è costituita l’assicurazione, eccependo che le lesioni subite dall’attore si sono verificate per l’esclusiva e determinante responsabilità dello stesso, in quanto non ha indossato le cinture di sicurezza.

Il Tribunale di Cosenza ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale futuro subito dall’attore.

Sull’impugnazione proposta dalla compagnia assicurativa, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rivalutato le prove e ha ritenuto incompatibili le lesioni riportate dal danneggiato e l’uso delle cinture di sicurezza. Di conseguenza, ha riconosciuto il concorso tra il comportamento del danneggiante e quello del danneggiato, riducendo proporzionalmente il risarcimento, in ragione dell’entità del contributo causale di quest’ultimo alla produzione del danno, ed escludendo in toto il danno patrimoniale, perché riconducibile al comportamento dello stesso.

Il danneggiato ha quindi proposto ricorso per cassazione perché i giudici di secondo grado avrebbero errato nell’escludere il nesso causale tra la condotta del conducente e la produzione del danno e nel non rilevare che, pur in presenza di una riduzione del risarcimento dovuto al concorso di colpa del danneggiato, è rimasto fermo il nesso causale tra la condotta del conducente ed il danno.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del ricorso. Il comportamento colpevole del danneggiato, infatti, non può in alcun caso interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente del veicolo e la produzione del danno.

Ha ribadito, poi, il consolidato principio (già espresso in Cass. 18177/2007) secondo il quale il conducente è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero. La causazione del danno da mancato utilizzo, quindi, è imputabile sia all’uno che all’altro. Ciò in quanto il conducente ha l’obbligo di mettere in circolazione il veicolo in condizioni di sicurezza. Deve controllare, cioè, che la marcia avvenga in conformità delle norme di prudenza e sicurezza anche nell’ipotesi in cui il trasportato, accettando i rischi della circolazione, cooperi colposamente nella condotta causativa dell’evento dannoso.

Nell’ipotesi di danno al trasportato, allora, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea ad escludere di per sé la responsabilità del conducente, può certamente costituire un contributo colposo alla verificazione del danno.

Studio Legale Damoli

Cass_2531_2019