La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31462, depositata in data 5 Dicembre 2018, ha ritenuto che l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, senza previa delibera assembleare in senso favorevole, è legittima ai sensi dell’art. 1102 c.c.

Il fatto

I condomini non interessati all’installazione di un ascensore all’interno dello spazio comune di un condominio chiedevano ne venisse dichiarata l’illegittimità oltre al ripristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Ascoli Piceno rigettava tutte le domande e la Corte D’Appello di Ancona, pronunciandosi sul gravame proposto dagli attori di I grado, confermava la sentenza.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della Corte qualora un esborso relativo ad innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche sia stato assunto interamente a carico di un condomino, trova applicazione la norma di cui all’art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune – purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto – e può apportare alla stessa a proprie spese le modificazioni necessarie a consentirne il migliore godimento.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha confermato la decisione in appello che aveva ritenuto l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, eseguita dai convenuti in primo grado a loro spese, legittima ex art. 1102 c.c., non ricorrendo una limitazione della proprietà degli altri condomini incompatibile con la realizzazione del manufatto, che è da ritenersi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento.  

Sent. n. 31462_2018 ascensore in condominio

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

In tema di notificazioni, l’art. 139 c.p.c. non dispone alcun ordine da seguire nelle ricerche del luogo, potendo scegliere di eseguire la notifica presso la casa di abitazione o l’ufficio, purché si tratti di luogo situato nel Comune di residenza del destinatario.

È, dunque, nulla la notifica effettuata con le modalità previste dall’art. 143 c.p.c., quando è noto il luogo di lavoro del destinatario.

Il fatto

Una società ha notificato un decreto ingiuntivo ad una persona fisica, ai sensi dell’art. 143 c.c..

In seguito, il medesimo creditore ha notificato atto di precetto presso il luogo di lavoro del debitore.

Quest’ultimo ha proposto, dunque, un’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo, che è stata accolta dal Tribunale di Taranto, il quale ha dichiarato la nullità della prima notifica ex art. 143 c.p.c..

La Corte d’Appello di Lecce ha, invece, ritenuto inammissibile l’opposizione e ha annullato la sentenza del giudice di primo grado.

Il debitore ha, dunque, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte ha ritenuto infondata la pretesa secondo cui, non avendo reperito alcun campanello presso l’indirizzo di residenza, l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto eseguire una seconda notifica presso l’ufficio del destinatario.

L’art. 139 c.p.c., infatti, nel prescrivere che la notifica si esegue nel luogo di residenza del destinatario e nel precisare che questi va ricercato nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio, non dispone un ordine tassativo da seguire in tali ricerche.

In ogni caso, secondo la costante giurisprudenza di legittimità in tema di notificazioni ex art. 143 c.p.c., qualora l’ufficiale giudiziario non abbia rinvenuto il destinatario presso l’abitazione risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca  ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi altrimenti nulla la notificazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio è tornato ad esprimersi sul lanoso problema della relazione tra Ordinamento Statale e Ordinamento dello Sport con la Sentenza n. 2140 del 27.03.2019.

Il fatto

Il ricorrente era stato eletto consigliere di un’associazione sportiva affiliata ad una federazione sportiva riconosciuta dal C.O.N.I. Tuttavia, la Commissione di Disciplina della federazione interessata aveva deciso che l’elezione non potesse essere convalidata per ragioni legate all’ineleggibilità del ricorrente.

Il ricorrente esaurite tutte le vie di ricorso dinnanzi agli organi di giustizia sportiva, aveva introdotto ricorso al T.A.R. funzionalmente competente avverso le decisioni assunte in ambito sportivo.  Il giudice adito ha però rigettato il ricorso per difetto di giurisdizione. La sentenza assume particolare interesse giacché ribadisce quale sia la corretta lettura ermeneutica da dare alle norme che devono guidare l’interprete nell’individuazione del confine tra giurisdizione statale e sportiva.

Il giudice speciale ricorda che in virtù del principio di autonomia tra i due ordinamenti, l’art. 2 della Legge n. 280/2003 permette d’individuare quali siano i casi toccati dal difetto di giurisdizione:

  • osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;
  • i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.

L’art. 3, infine, pone il principio secondo cui esauriti i gradi della giustizia sportiva ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’art. 2, sia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La pronuncia

Il T.A.R. ha confermato che, escluse le controversie aventi rilevanza per l’Ordinamento Statale tali perché riguardanti interessi legittimi o diritti soggettivi, la giustizia sportiva costituisce l’unico strumento di tutela per le ipotesi in cui si discuta circa la corretta applicazione delle regole sportive.

La lite all’origine del ricorso concernendo l’eleggibilità del ricorrente quale consigliere di un’associazione sportiva riguarda, in ultima analisi, l’osservanza delle norme regolamentari, organizzative e statutarie di una federazione sportiva.

È indubbio che tali controversie debbano essere ricondotte nella sfera di autonomia riservata all’Ordinamento dello Sport. Da tanto ne discende che la questione relativa all’ineleggibilità del ricorrente per una carica sociale, non palesando rilevanza esterna all’ordinamento sportivo e rientrando tra le materie dell’art. 2 della Legge n. 280/2003, imponga al Tribunale Amministrativo di dichiarare il difetto di giurisdizione.

Sentenza T.A.R. ord statale e ordinamento sportivo

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Di recente, con la sentenza n. 8208/2019, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di Poste Italiane al risarcimento dei danni per l’infortunio occorso ad un proprio dipendente (portalettere) mentre eseguiva la propria mansione.

Il fatto

Il caso riguarda un “postino” di Poste Italiane che, percorrendo una strada non asfaltata e sconnessa, con il motorino aziendale, cadeva rovinosamente a terra riportando una lesione alla mano (amputazione falange del IV dito). Promosso ricorso contro la società per il risarcimento del danno, la domanda veniva accolta in primo grado e in appello in quanto Poste Italiane non aveva fornito la prova di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenire l’infortunio. L’incidente, infatti, era avvenuto per l’inadeguatezza del motoveicolo aziendale per il tragitto lungo strade non asfaltate ovvero lungo vie “campagna”.

La pronuncia

La Suprema Corte ha respinto il ricorso di Poste Italiane colpevole di non aver adottato ogni misura necessarie ad impedire l’evento. In particolare, l’incidente non è avvenuto per mero caso fortuito ma per la violazione di un preciso obbligo di protezione cui è tenuto il datore di lavoro di cui all’art. 2087 c.c. Tale norma prevede, infatti, che l’imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la salute dei propri dipendenti.

Orbene, nel caso di specie, il motorino è risultato inadeguato in relazione alle particolari caratteristiche delle sedi stradali (vie non asfaltate o sconnesse). Quindi, l’incidente è stato determinato da un inadempimento del datore di lavoro in quanto non ha fornito al proprio dipendente mezzi idonei a percorrere strade non asfaltate.

Cassazione Infortunio Postino

Dott. Fabio Caretta

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona. È iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza nel Registro dei Praticanti. È esperto in diritto del lavoro, bancario e finanziario.

È configurabile il reato di frode nell’esercizio del commercio, previsto e punito dall’art. 515 c.p., qualora si riscontri la diversa composizione del vino detenuto per il commercio rispetto a quanto indicato nelle etichette apposte sul resto delle bottiglie.

Il fatto

Ad un produttore di vino è stato sequestrato un ingente carico di bottiglie di vino e di etichette, destinato al mercato danese.

Dalle indagini effettuate, infatti, è emerso che in quelle bottiglie non fossero presenti le uve corvina, croatina e rondinella, contrariamente a quanto risultante dalle indicazioni presenti sulle etichette apposte sul retro delle bottiglie relativamente alla composizione del vino.

I consumatori sarebbero stati tratti in inganno sulle caratteristiche di provenienza dei vini, aventi una composizione differente rispetto a quella riportata sulle etichette.

Il Tribunale di Verona ha ascritto al produttore il reato di contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, ex art. 517 quater c.p..

L’imprenditore ha promosso ricorso per cassazione avverso il diniego di riesame del decreto di sequestro preventivo perché i fatti contestati non avrebbero potuto rientrare nella predetta norma incriminatrice. Il prodotto sequestrato, infatti, sarebbe privo di IGP e DOC.

La pronuncia

Con la sentenza n. 2354, pubblicata il 23 marzo 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Nonostante la non configurabilità, nel caso di specie, del reato di cui all’art. 517 quater c.p. (il quale sarebbe integrato da condotte di contraffazione o alterazione dei segni distintivi di origine geografica e da quelle di introduzione nel territorio dello Stato, detenzione per la vendita, offerta in vendita diretta ai consumatori e messa in circolazione dei prodotti con segni mendaci), la fattispecie concreta è di certo riconducibile al tentativo di frode nell’esercizio del commercio, previsto e punito dall’art. 515 c.p..

Di conseguenza, il sequestro è comunque legittimo, essendo potere del giudice cautelare la riqualificazione del fatto di reato.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La sezione VI del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1480/2019, depositata in data 4 Marzo 2019, ha ritenuto che la realizzazione di una tettoia a servizio di un edificio sia sottratta al rilascio di un permesso di costruire qualora abbia finalità di mero arredo e di protezione dell’immobile cui accede ma non ne alteri la sua sagoma.

Il fatto

Il Tar Lazio, sezione Latina, rigettava il ricorso presentato da una signora che aveva impugnato l’ordinanza di demolizione di una tettoia prefabbricata in metallo con tamponatura bilaterale asservita all’esercizio di un’attività commerciale.

La signora proponeva appello avverso la sentenza del TAR ritenendo si trattasse di una mera pertinenza in senso urbanistico.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione, “il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio; l’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo dell’immobile cui accedono”.

Nel caso di specie la tettoia costruita, tamponata lateralmente, era di dimensioni tali da aver innovato il manufatto preesistente da un punto di vista morfologico e funzionale, con un’evidente variazione planivolumetrica ed architettonica che rendeva necessario il rilascio del permesso di costruire per l’installazione della tettoia.  

Consiglio di Stato, sez. VI, 4 marzo 2019 tettoia

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

La Sezione Terza Penale, della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 5788/2017, depositata in data 07 febbraio 2018, ha statuito che, in caso di assenza di rischi per la salute dei consumatori, non è necessaria la confisca se, sull’etichetta delle bottiglie di vino, compare la denominazione d’origine protetta ed è priva del trattamento a cui è stato sottoposto.

Il fatto

Il Tribunale ha condannato una azienda agricola al pagamento di una sanzione per il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, ex art. 517 c.p.

Inoltre, con sentenza, ha disposto il dissequestro di un quantitativo di bottiglie che erano state confiscate per etichette equivoche.

Le bottiglie di vino erano da intendersi intrinsecamente criminose, poiché erano prive di indicazioni riguardo al trattamento e sprovviste dell’origine del prodotto.

La pronuncia 

Quanto sollevato dal ricorrente è stata la natura “intrinsecamente criminosa” del bene, poiché non vi era indicazioni sui trattamenti ai quali era stato sottoposto.

Il reato, ha ad oggetto la tutela del leale esercizio del commercio e protegge l’interesse del consumatore a non ricevere una cosa differente da quella richiesta.

La sentenza impugnata ha dato atto che le bottiglie non contenevano sostanze alimentari nocive per la salute del consumatore, e che pertanto l’illecito contestato riguardava unicamente la corrispondenza tra le bottiglie di vino messe in commercio e la denominazione di origine indicata sulla confezione.

Etichette vino no confisca per bottoglie non nocive

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Gli obblighi di tenuta dei registri dei prodotti vitivinicoli sono funzionali a garantire la totale ed integrale autenticità delle operazioni di vinificazione finanziate a livello comunitario.

Ove il beneficiario, in violazione dei predetti obblighi, ometta di annotare la marcatura dei contenitori utilizzati per le operazioni di arricchimento del vino e, quindi, esponga dati e notizie oggettivamente falsi, è tenuto alla restituzione dell’aiuto ricevuto a norma dell’art. 2 della l. n. 898 del 1986.

Il fatto

Un associazione tra produttori ha percepito aiuti comunitari per l’arricchimento del vino e del mosto nella campagna viticola 1994/95.

L’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura ha citato in giudizio l’azienda agricola per ottenere la restituzione delle somme indebitamente trattenute da quest’ultima, in quanto la stessa ha commesso irregolarità nelle operazioni di arricchimento del vino, non annotando la marcatura delle vasche nell’apposito registro.

Il Tribunale di Roma non ha accolto la domanda.

La Corte d’Appello di Roma, invece, ha condiviso le ragioni dell’Agenzia.

La società ha, quindi, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 18701, pubblicata il 22 settembre 2015, la Suprema Corte di Cassazione ha definitivamente condannato l’associazione tra produttori a restituire gli aiuti comunitari percepiti.

L’accertata mancanza della marcatura delle vasche di arricchimento di vino e mosti costituisce un adempimento necessario a garantire, anche in virtù della successiva commercializzazione, la totale ed integrale autenticità delle operazioni di verificazione, finanziate a livello europeo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Sezione Sesta Civile della Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9065/2019, depositata in data 02 aprile 2019, non ha riconosciuto il risarcimento danno al marito che è stato tradito dalla moglie fedifraga. 

Il fatto

In primo grado, il Tribunale, ha accolto le pretese risarcitorie fatte valere dal marito che ha scoperto la relazione extraconiugale della moglie.

Oltre tutto, lo stesso, ha dovuto subire lo shock della scoperta che il figlio nato dalla moglie non è il suo.

La pretesa risarcitoria accolta dal Tribunale, è stata rigettata dalla Corte di Appello, poiché ritenuta priva di fondamento.

La pronuncia 

Gli Ermellini hanno avvalorato quanto disposto dalla Corte di Appello, affermando che non vi sono i presupposti per mettere in discussione le valutazioni e i fatti valutati dai giudici dell’appello. 

In conclusione, è stato ritenuto irrilevante il venire meno della comunione spirituale tra i coniugi, i comportamenti della moglie contrari alla vita coniugale e che il figlio è frutto della relazione extraconiugale della donna.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la sentenza n. 7641 del 19 marzo 2019, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente che, sotto infortunio con indicazione di riposo e cure, svolgeva una seconda attività lavorativa, violando così gli obblighi contrattuali di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede.

Il fatto

I primi due gradi di giudizio di merito hanno confermato la liceità del recesso datoriale comminato ad un dipendente, il quale svolgeva durante il periodo di assenza per morbosità altra attività subordinata, nello specifico guidava automezzi ed effettuava operazioni di scarico/carico di cerchi in lega per autovetture, compromettendo e ritardando la guarigione.

L’ex dipendente proponeva ricorso in Cassazione ed il datore di lavoro si costituiva tramite controricorso.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando quanto segue.

Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, correttamente condiviso dalla Corte d’Appello di Napoli, lo svolgimento di una seconda attività lavorativa subordinata, durante il periodo di assenza per infortunio, integra una grave violazione degli obblighi contrattuali “di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. (Cass. n. 26496/2018; conforme, fra le più recenti, Cass. n. 10416/2017)”.

Ne consegue la legittimità del licenziamento per giusta causa per notevole inadempimento contrattuale, a prescindere dalla previsione di tale fattispecie nel contratto collettivo o nel codice disciplinare.

Sentenza n. 7641 19 marzo 2019

Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.