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Il professionista delegato alla vendita dell’immobile pignorato può effettuare la pubblicità solo sui siti internet elencati nell’apposito decreto ministeriale, ai sensi dell’art. 490 c.p.c..

Il fatto

Una banca ha promosso un pignoramento immobiliare nei confronti di un proprio debitore.

All’esito del procedimento di esecuzione forzata, l’immobile è stato venduto.

Il debitore, però, ha promosso opposizione agli atti esecutivi, chiedendo la nullità dell’aggiudicazione e del decreto di trasferimento, in quanto il professionista delegato alla vendita avrebbe pubblicizzato l’asta su un sito internet diverso rispetto a quelli elencati dal decreto ministeriale di cui all’art. 173 disp. att. c.p.c..

Il Tribunale di Benevento ha rigettato l’opposizione.

Il debitore, allora, ha promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18344, pubblicata il 9 luglio 2019, ha accolto il ricorso e ha, quindi, dichiarato la nullità dell’aggiudicazione e del decreto di trasferimento impugnati.

Se nel provvedimento di conferimento della delega al professionista, il giudice prevede che questi individui il sito internet sul quale effettuare la pubblicità ai sensi dell’art. 490 c.p.c., il potere di scelta del medesimo è esercitabile esclusivamente nell’ambito dei siti autorizzati.

La violazione della delega che comporti l’omissione della pubblicità obbligatoria determina la nullità dell’aggiudicazione.

Cass_18344_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Corte d’Appello di Venezia si è espressa in merito ad un caso riguardante il reato di turbativa d’asta, di cui all’art. 353 c.p., con la sentenza n. 1321/2017. Il giudice di secondo grado, nell’assolvere gli imputati, ha fissato alcuni interessanti principi in materia di prova del reato in analisi che, come noto, presenta quale elemento costitutivo la così detta “combine”. La vicenda trae origine da una sentenza di condanna, emessa in primo grado, a carico di tre imprenditori per aver turbato, mediante collusione tra loro, l’esito di una procedura d’evidenza pubblica.

Il fatto

Il giudice di primo grado aveva valorizzato alcuni elementi fattuali per dimostrare che le diverse offerte provenissero, in realtà, da un unico centro d’interesse e potessero dirsi, a priori, concordate.

Tra questi elementi spiccava che in una diversa e precedente procedura d’evidenza pubblica due delle società avessero costituito un’associazione temporanea d’imprese.

Ciò poteva dirsi, ex se, bastevole per provare che nella diversa e successiva gara gli imprenditori avessero assunto, solo formalmente, la veste di concorrenti e avversari.

Inoltre, un ulteriore elemento corroborava l’ipotesi imputativa ex art. 353 c.p.; due degli imputati avevano ricoperto la carica di consiglieri in un organo direttivo di uno stesso ente associativo e, pertanto, avevano chiaramente fitte cointeressenze tra loro.

Impugnata la sentenza di primo grado, i difensori degli imputati criticavano le conclusioni del giudice di prime cure contestando che l’esistenza dell’accordo collusivo non potesse fondarsi su elementi fattuali privi di riscontro e, comunque, mancanti dei requisiti di cui all’art. 192 c.p.p.

Di particolare interesse è che i difensori abbiano impugnato la sentenza mettendo in evidenza che la precedente partecipazione ad una gara indetta da diversa amministrazione, nelle forme dell’associazione temporanea d’imprese, non potesse giovare alle tesi accusatorie. Invero, era da escludersi che la prova dell’unicità del centro decisionale si potesse ricavare, anche solo in via presuntiva,  sfruttando un istituto perfettamente lecito in quanto previsto dal Codice degli Appalti.

A ciò doveva aggiungersi che nulla vietava a due imprese, per ragioni economiche e di convenienza, di partecipare in ATI ad una determinata procedura e affrontarsi da avversarie in un’altra.

I difensori degli imputati ribadivano anche un ulteriore aspetto assolutamente condivisibile. L’eventuale collegamento sostanziale tra imprese non forma un autonomo elemento da cui trarre la prova del reato in parola poiché sempre s’impone la prova del fatto, fondata su elementi univoci, che le offerte provengano da un unico centro decisionale.

La pronuncia

Il principio affermato dal giudice dell’impugnazione è il seguente: la formazione di un’associazione temporanea d’imprese in una gara precedente a quella dove si sarebbe consumato il reato cui all’art. 353 c.p., essendo una pratica assolutamente lecita, non può di per sé assurgere a prova della turbativa d’asta. Inoltre, l’aver ricoperto entrambi una identica carica sociale in uno stesso ente associativo non prova la sussistenza di fitte cointeressenze tra imprenditori, giacché elementi quali il conoscersi e frequentare gli stessi ambienti sono dati di fatto penalmente irrilevanti ex art. 353 c.p..

Sulla base di tali presupposti gli imputati sono stati assolti “perché il fatto non sussiste”.

Turbativa

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.