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In tema di risarcimento danni da circolazione stradale, la procedura di indennizzo diretto è applicabile anche al caso di collisione che riguarda più di due veicoli, salva l’ipotesi in cui, oltre al veicolo dell’istante e a quello nei cui confronti questi rivolge le proprie pretese, siano coinvolti ulteriori veicoli (i conducenti siano) responsabili del danno.

Sez. VI, ordinanza numero 27057 del 2021

La Cassazione Civile, Sezione Sesta, con una ordinanza del 2019, ha precisato che in caso di presenza di una macchia ben visibile sulle scale del condominio, con conseguente caduta da parte di una persona, si esclude la responsabilità del condominio se il pericolo era prevedibile ed evitabile utilizzando l’ordinaria diligenza.

Il fatto

Il caso in oggetto riguarda una richiesta di risarcimento sottoposta all’attenzione della Cassazione, riguardo ad una caduta dalle scale per la presenza di una macchia scivolosa.

Sia in primo che in secondo grado, la domanda del danneggiato è stata rigettata, poichè non ha dimostrato, attraverso mezzi di prova, la normale diligenza nello scendere le scale.

Ha proposto ricorso per Cassazione, precisando come motivo principale l’erronea inversione dell’onere probatorio che sarebbe spettato al condominio.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha affermato che il comportamento posto in essere dal danneggiato è l’unica causa del  verificarsi del danno, e per tale motivo, il condominio è stato esonerato, ex art. 2051 c.c., dalla responsabilità.

L’imprudenza del danneggiato, o la mancata attenzione,  possono essere tali da porsi quale fattore causale esclusivo nella produzione dell’evento.

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Con la recente sentenza, pubblicata il 25 giugno scorso, la Corte di Cassazione ha riaffermato, nell’ambito della propria funzione nomofilattica, i requisiti che devono caratterizzare i criteri adottati dal Giudice del merito quando liquida il danno patrimoniale da lucro cessante, in particolare sotto il profilo del danno permanente da incapacità di guadagno.

Il fatto

Il signor P.D., giovane avvocato, a seguito di un sinistro stradale in cui il suo veicolo era stato investito dall’auto condotta da P.I., formulava richiesta di risarcimento dei danni all’impresa assicuratrice del veicolo antagonista la quale accordava il risarcimento, ammettendo l’esclusiva responsabilità del P.I. nella causazione dell’incidente.

Il P.D., il quale – si evince – aveva riportato lesioni permanenti invalidanti con importanti ripercussioni sulla propria vita privata e lavorativa, riteneva la somma liquidata dall’assicurazione non congrua e, pertanto, conveniva la compagnia avanti al Tribunale di Cremona chiedendo il risarcimento integrale dei danni subiti, quantificati in oltre due milioni di euro al netto della somma già ricevuta.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello di Brescia poi accoglievano parzialmente le istanze del P.D. in quanto, pur riconoscendo in entrambi i gradi di giudizio le basi per un’integrazione di quanto sino a quel momento ricevuto, riducevano sensibilmente le pretese risarcitorie in relazione al danno permanente da incapacità di guadagno.

Tale diversa quantificazione, sostiene il P.D., è errata in quanto da un lato si basa sull’applicazione dei coefficienti di capitalizzazione inseriti nelle tavole allegate al R.D. n. 1403/1922, ormai non più attuali, e dall’altro in quanto il calcolo risulta fatto tenendo conto di una base reddituale costante moltiplicata per gli anni residui di vita, mentre costituisce fatto noto che il reddito di un giovane professionista è destinato ad aumentare anno dopo anno.

Sulla base di questi motivi il P.D. ha quindi proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato l’errore di diritto lamentato dal ricorrente in relazione alla sentenza d’appello, la quale aveva disatteso un orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, inaugurato nel 2015 e confermato anche nel 2019 con la sentenza n. 16913 in punto di quantificazione del danno permanente da incapacità di guadagno.

La Corte di Cassazione, infatti, illustra che, allo stato dell’arte, tale voce di danno “non può più liquidarsi utilizzando i coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D: n. 1403 del 1922 dal momento che questi (…) non sono più idonei a garantire un corretto risarcimento equitativo del danno e, pertanto, a rispettare il dettato dell’art. 1223 c.c.”.

Il Giudice del merito, infatti, pur nella sua autonoma scelta dei coefficienti di capitalizzazione che ritiene più idonei secondo il caso prospettato, deve tener conto di coefficienti supportati da basi scientifiche e attuali, come per esempio quelli utilizzati “per la capitalizzazione di rendite assistenziali o previdenziali o i coefficienti elaborati in dottrina”.

Quanto alla base imponibile da utilizzare per il calcolo, la Corte pur non affrontando il motivo specifico in quanto ritenuto assorbito, riprende quanto affermato nella propria sentenza n. 10499 del 28 aprile 2017: dovrà tenersi conto della retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza “desunta da parametri di rilievo normativo o altrimenti stimata in via equitativa”.

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Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9348 di data 4.04.2019, ripercorrendo due contrapposti indirizzi giurisprudenziali, da risposta affermativa al quesito rilevando che nel nostro ordinamento non sono previsti danni risarcibili per il solo verificarsi dell’evento che li ha prodotti.

Il fatto

Durante una manovra l’automobile guidata da Tizio urtava il motociclo di Caia parcheggiato in strada causando ingenti danni.

Alfa, impresa assicuratrice del veicolo antagonista, liquidava in favore di Caia la somma di euro 3.475,00, che quest’ultima tratteneva in via di acconto. In un secondo momento Caia adiva il Giudice di Pace di Brindisi per ottenere il risarcimento integrale dei danni subiti, da ella quantificati in euro 7.355,46 per le riparazioni ed euro 150,00 per i danni da fermo tecnico del mezzo, durato tre giorni.

Il Giudice di Pace di Brindisi e, in secondo grado il Tribunale, rigettavano la richiesta risarcitoria di Caia la quale proponeva ricorso per Cassazione affermando che il danno da fermo tecnico non richiedeva una prova specifica, essendo insito nell’impossibilità di usare il mezzo, e che la sosta forzata era di per se fonte di spese (tassa di circolazione, premio assicurativo, naturale deprezzamento del bene).

La pronuncia

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso proposto da Caia, ripercorre i diversi orientamenti succedutisi nel tempo. Da atto di una giurisprudenza che riteneva il danno da fermo tecnico “liquidabile in via equitativa indipendentemente da una prova specifica in ordine al pregiudizio subito”; del contrapposto orientamento più risalente secondo il quale la mera indisponibilità del veicolo non era elemento sufficiente per dimostrare il danno patito e, infine, di un terzo filone, inaugurato nel 2015 cui la Corte nell’ordinanza in commento aderisce, secondo il quale “l’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni sia un danno che deve essere allegato e dimostrato; che la prova del danno non possa consistere nella dimostrazione della mera indisponibilità del veicolo, ma che occorra fornire la prova della spesa sostenuta per procurarsi un mezzo sostitutivo ovvero della perdita subita per avere dovuto rinunciare ai proventi ricavati dall’uso del mezzo”.

Diversamente, infatti, si ammetterebbe una funzione sanzionatoria della responsabilità civile e si utilizzerebbe il criterio equitativo in modo distorto, cioè non in funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno ma per sopperire al difetto di prova.

Ordinanza n. 9348 dd. 4.04

Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

In un contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso”, l’organizzatore ed il venditore assumono specifici obblighi, soprattutto di tipo qualitativo, riguardo a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera e livello dei servizi, che vanno esattamente adempiuti. Pertanto, ove la prestazione non sia esattamente realizzata, si configura una loro responsabilità contrattuale, salvo che forniscano la prova che l’inadempimento sia ad essi non imputabile.

Il fatto

Una giovane coppia ha acquistato da un’agenzia viaggi un pacchetto turistico del tour operator Francorosso, comprendente il trasferimento aereo e l’alloggio presso un noto albergo. Le fotografie di quest’ultimo riportate sul depliant consegnato ai clienti riproduceva una bella spiaggia dinanzi all’albergo ed un bel mare.

Giunti sul posto, tuttavia, i turisti hanno constatato che la spiaggia fosse sporca ed il mare inquinato.

Dopo aver sostenuto le spese per spostarsi in un alloggio diverso e più adeguato, i giovani hanno citato in giudizio il tour operator, chiedendo il risarcimento dei danni patiti.

Inizialmente, il Tribunale di Pordenone ha respinto la domanda, ritenendo che la pulizia della spiaggia e la purezza dell’acqua del mare non potessero essere garantiti dall’organizzatore a mezzo della stampa di un depliant pubblicitario.

La Corte d’Appello di Trieste, poi, ha invece accolto la domanda, ritenendo che il libretto illustrativo fosse effettivamente parte integrante dell’offerta contrattuale.

L’operatore turistico, allora, ha promosso ricorso per cassazione, in quanto lo stesso non avrebbe mai potuto garantire che le condizioni del mare fossero sempre ottimali.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5189, pubblicata il 4 marzo 2010, ha respinto il ricorso perché infondato.

In materia di viaggi e vacanze “tutto compreso”, in caso di mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni assunte con la vendita del pacchetto turistico, l’organizzatore ed il venditore sono tenuti al risarcimento del danno.

Per evitare il sorgere di responsabilità a loro carico, essi avrebbero dovuto dimostrare o il caso fortuito, o l’esclusiva responsabilità del consumatore.

Nel caso di specie, dunque, il tour operator è stato condannato a risarcire il danno da vacanza rovinata.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Nei casi in cui il titolare del bene protetto non intenda concedere lo sfruttamento della riproduzione fotografica dei propri dati personali ad altri, non può essere escluso un danno patrimoniale.

Anche qualora non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimonialmente valutabili, la parte lesa può comunque chiedere una determinazione di tale importo in via equitativa, avuto riguardo alla consistenza del vantaggio economico conseguito dall’autore dell’illecita pubblicazione e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione.

Il fatto

Una rivista di cronaca rosa ha pubblicato 13 fotografie che hanno ritratto un attore famoso in atteggiamenti intimi con una nota soubrette.

Egli ha, dunque, citato in giudizio il direttore e la casa editrice della rivista chiedendo il risarcimento per i danni subiti.

Il Tribunale di Milano ha condannato entrambi i convenuti al pagamento di una ingente somma a titolo di risarcimento dei danni sia patrimoniali, sia non patrimoniali.

La Corte d’Appello meneghina, tuttavia, pur avendo confermato la sussistenza delle violazioni del diritto alla riservatezza dell’appellato e del trattamento illecito dei suoi dati personali, ha negato l’esistenza di un danno patrimoniale. Non ha, infatti, riscontrato la possibilità di sfruttamento economico delle immagini da parte dello stesso attore.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo per contro che avrebbe consentito alla pubblicazione delle proprie immagini dietro corrispettivi milionari.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1875, depositata il 23 gennaio 2019, ha accolto il ricorso perché fondato.

Secondo i giudici di legittimità, chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona notoria è tenuto, nei suoi confronti, al risarcimento del danno.

La quantificazione di questo è operata tenendo conto delle cause di detta notorietà: se essa consegue ad esercizio di un’attività di sfruttamento rimunerato dell’immagine, l’abusiva pubblicazione comporta un danno di natura patrimoniale.

La persona danneggiata, pertanto, deve essere risarcita del pregiudizio economico di cui ha risentito. E qualora esso non possa essere dimostrato, l’importo può essere determinato in via equitativa dal giudice.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il soggetto che, trovandosi all’interno di un locale di intrattenimento notturno, è colpito da una bottiglia lanciata da un’altra persona, rimasta sconosciuta, non ha diritto al risarcimento del danno da parte del gestore della discoteca, perché il fatto doloso del terzo è la causa esclusiva del danno da lui patito.

Il fatto

Un cliente di una discoteca di Lecce ha citato in giudizio il gestore del medesimo locale, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti in occasione di un incidente occorso quando, trovandosi a ballare in pista, è stato colpito da una bottiglia lanciata dal privé, posizionato sul piano superiore.

Nonostante il Giudice di Pace avesse accolto, in primo grado, la richiesta risarcitoria, in grado di appello il Tribunale ha, invece, rigettato la medesima domanda, in quanto il gestore del locale non avrebbe potuto governare ogni possibile fonte di rischio.

Il cliente ha, allora, promosso ricorso per cassazione, perché il possessore della discoteca avrebbe dovuto, perlomeno, provare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il sinistro, in termini di sorveglianza e vigilanza.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15249, pubblicata il 4 giugno 2019, ha respinto il ricorso perché infondato.

Secondo i giudici, l’evento dannoso non sarebbe stato provocato dal dinamismo della bottiglia in sé, bensì dall’uso della bottiglia fatto dall’avventore.

Non sussistendo, allora, un divieto di vendita di bottiglie ed alcolici all’interno di una discoteca e non potendo il personale della struttura obiettivamente controllare ogni possibile fonte di rischio, nel caso in esame il fatto doloso del terzo è risultato idoneo ad elidere ogni nesso causale tra la vendita della bottiglia e l’evento lesivo.

Di conseguenza, è da escludersi ogni responsabilità del gestore del locale notturno.

Cass_15249_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.