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Il giustificato motivo oggettivo, necessario per la legittimità del licenziamento, si sostanzia in ogni modifica della struttura organizzativa dell’impresa, che abbia quale suo effetto la soppressione di una determinata posizione lavorativa, indipendentemente dall’obiettivo perseguito dall’imprenditore, sia esso un incremento della produttività, oppure la necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli.

Il fatto

Un lavoratore ha impugnato il provvedimento con il quale il datore di lavoro lo ha licenziato per giustificato motivo oggettivo in quanto, nonostante fosse vero che i profitti dell’azienda fossero calati, i risultati di gestione sono risultati comunque positivi.

Sia il Tribunale, in primo grado, sia la Corte d’Appello, in secondo, hanno accolto le ragioni del dipendente, condannando l’imprenditore al pagamento delle differenze di retribuzione.

Quest’ultimo ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che il licenziamento in esame rientrasse nell’ipotesi di riassetto organizzativo dell’impresa, in considerazione del minore volume d’affari e dell’andamento negativo dei ricavi aziendali.

La pronuncia

Con la sentenza n. 19302, pubblicata il 18 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.

La giurisprudenza di legittimità ha, da tempo, pronunciato il principio secondo il quale “le ragioni dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero all’incremento della redditività dell’impresa, che determinano un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso al sopressione di un posto di lavoro, possono legittimare il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo” (Cass. Sez. Lav. 25201/2016).

Pertanto, la costante riduzione dei ricavi, il calo delle vendite ed il dilagare della crisi economica rendono legittima la decisione del datore di lavoro di ridurre il personale dipendente.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Suprema Corte di Cassazione, confermando la statuizione della Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 11539, depositata il 2 maggio 2019, ha escluso la legittimità del licenziamento comminato ad un quadro, in quanto gli addebiti di inadempienza erano prive di specifiche direttive ed oggetto.

Il fatto

Il ricorrente fu destinatario dei seguenti addebiti: “a) nell’invio di una polemica ed irrispettosa lettera a cinque superiori prima della formalizzazione dell’incarico poi affidatogli per un progetto da sviluppare, b) nell’aver frapposto svariate difficoltà di ordine personale e professionale durante l’intero corso della missione e nell’aver presentato in ritardo un testo progettuale del tutto carente, c) nella recidiva in cui il dipendente era incorso per la sanzione della sospensione di 8 giorni irrogatigli nel 2011 “

Secondo il Giudice del gravame i fatti contestati all’ex dipendente non integrano gli estremi, né di un licenziamento per giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, né di un recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, la comunicazione inviata ai dirigenti superiori, che la società sosteneva contenere espressioni offensive o sgarbate, risultava essere una semplice missiva priva di insulti in cui il dirigente esprimeva i propri dubbi in merito al nuovo incarico affidatogli, riguardante l’organizzazione di un progetto in Ungheria.

Inoltre, il datore di lavoro, impartendo un incarico di scarsa definizione dell’oggetto e in assenza di preliminari colloqui con il dipendente diretti a chiarire le sue mansioni, violava i principi di correttezza e buona fede, che si concretizzava: a) nella tardiva reprimenda a fini disciplinari fatta al ricorrente per la lettera da lui inviata ai superiori in data 26.7.2011, b) nel non aver considerato che, sin dal 11.8.2011, il dipendente aveva inviato al suo diretto superiore la bozza preliminare del suo studio, poi approfondita e completa il 31.8.2011.

Si escludeva infine la scarsa qualità dell’elaborato/progetto in quanto la società non avrebbe promosso precise e concrete contestazioni di errori tecnici, documentali e formali, ma addebitava solamente una “mancanza di impaginazione e di titoli giusti, all’uso di un programma informatico piuttosto che un altro”.

L’ex datore di lavoro depositava ricorso per cassazione con unico motivo, deducendo l’inosservanza degli artt. 2119 c.c. e 3 St. Lav. per aver inquadrato gli addebiti solo nel suo complesso, in violazione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondi cui anche una unica contestazione grave legittima il licenziamento per giusta causa.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per cassazione, confermando che non necessariamente l’esistenza della giusta causa di recesso debba essere ritenuta idonea al complesso dei datti contestati, ma bensì ciascuno di essi possono giustificare l’espulsione per violazione del vincolo fiduciario (cfr. Cass. n. 1062/2012).

Infatti, il giudice di merito ha il dovere di valutare in concreto ogni singola inadempienza, anche in riferimento al contesto complessivo della contestazione.

Ne deriva l’illegittimità del recesso datoriale qualora le contestazioni addebitate fossero prive di concrete e specifiche direttive ed oggetto.

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Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.

Con la sentenza n. 7641 del 19 marzo 2019, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente che, sotto infortunio con indicazione di riposo e cure, svolgeva una seconda attività lavorativa, violando così gli obblighi contrattuali di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede.

Il fatto

I primi due gradi di giudizio di merito hanno confermato la liceità del recesso datoriale comminato ad un dipendente, il quale svolgeva durante il periodo di assenza per morbosità altra attività subordinata, nello specifico guidava automezzi ed effettuava operazioni di scarico/carico di cerchi in lega per autovetture, compromettendo e ritardando la guarigione.

L’ex dipendente proponeva ricorso in Cassazione ed il datore di lavoro si costituiva tramite controricorso.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando quanto segue.

Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, correttamente condiviso dalla Corte d’Appello di Napoli, lo svolgimento di una seconda attività lavorativa subordinata, durante il periodo di assenza per infortunio, integra una grave violazione degli obblighi contrattuali “di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. (Cass. n. 26496/2018; conforme, fra le più recenti, Cass. n. 10416/2017)”.

Ne consegue la legittimità del licenziamento per giusta causa per notevole inadempimento contrattuale, a prescindere dalla previsione di tale fattispecie nel contratto collettivo o nel codice disciplinare.

Sentenza n. 7641 19 marzo 2019

Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.