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Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento con specifico riferimento al requisito della proporzionalità della sanzione, occorre accertare in concreto se la specifica mancanza commessa dal dipendente risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.

Il fatto

La store manager di un negozio ha tenuto comportamenti che l’hanno condotta al licenziamento disciplinare, quali l’introdurre nel negozio medesimo una sarta per farsi confezionare un vestito identico ad un modello in vendita, lo svolgimento telefonico di attività di cartomanzia in orario di lavoro, l’aver messo da parte capi di abbigliamento destinati alla vendita, l’aver indossato capi destinati alla vendita durante l’orario di lavoro, l’essersi ripetutamente assentata dal lavoro senza autorizzazione e aver ripetutamente rimproverato e mortificato le colleghe.

Questa ha proposto reclamo dinanzi alla Corte d’Appello di Genova, la quale ha accolto le sue ragioni e ha condannato l’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata in 15 mensilità.

Il datore di lavoro ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, perché i giudici di merito non avrebbero considerato le mansioni di gerente della lavoratrice e le maggiori responsabilità connesse a tale ruolo.

La pronuncia

Con la sentenza n. 24619, pubblicata il 2 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.

I giudici del merito non hanno considerato la portata soggettiva della specifica mancanza commessa dal dipendente.

In particolare, non hanno considerato il ruolo svolto dal lavoratore, cioè quello di gerente, e le connesse responsabilità né sul piano di un più intenso obbligo di diligenza, né del dovere di comportamenti tali da costituire positivi riferimenti per i propri sottoposti.

Di conseguenza, il licenziamento disciplinare irrogato nei confronti della lavoratrice è divenuto definitivo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse di quest’ultimo, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie.

Il fatto

Per un periodo di oltre 17 anni, un ragazzo ha lavorato presso uno studio legale.

Egli, rispettando i propri compiti, ha seguito i clienti e le direttive del titolare di studio (unico a firmare gli atti), ha osservato l’orario di lavoro imposto dall’organizzazione dello studio e ha svolto le mansioni di supporto a quelle dell’avvocato, sotto la vigilanza dello stesso.

Al termine del rapporto di lavoro, ha citato in giudizio il predetto avvocato per ottenere il pagamento delle differenze retributive spettantegli, potendo lo stesso rapporto essere qualificato come di lavoro subordinato.

La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, ha dato ragione al praticante.

Il dominus, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo illegittima la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato.

La pronuncia

Con la sentenza n. 22634, pubblicata il 10 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici hanno precisato che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.

Nel caso di specie, il rapporto tra praticante e dominus rientra in quello disciplinato dall’art. 2094 c.c., perché il primo ha lavorato all’interno dello studio del secondo, ha intrattenuto rapporti con i clienti dello stesso, ha svolto attività legale anche se privo del titolo di avvocato, di cui il dominus si è assunto la paternità, e ha ricevuto quotidiane direttive sulle attività da svolgere.

Tali elementi sono stati sufficienti a far ritenere sussistente il rapporto di subordinazione.

Cass_22634_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3133 del 1° febbraio 2019, ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, a mezza della quale si escludeva l’illegittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di una segretaria, la quale accedeva reiteratamente ad internet, in particolare al social network Facebook, durante l’orario di lavoro.

Il fatto

Parte appellante, segretaria a tempo part-time presso uno studio medico, impugnava la sentenza di primo grado, assumendo che il licenziamento intimato avesse carattere ritorsivo in quanto successivo alla richiesta di fruizione dei permessi legge n. 104/2012 e che il datore avesse violato le norme sulla riservatezza.

Il Collegio del gravame respingeva tali assunti difensivi, affermando che il grave contegno della dipendente risulta “in contrasto con l’etica comune” e che le contestazioni promosse dal datore di lavoro non violavano le norme sulla privacy, dato che egli si era limitato a computare le violazioni tramite la cronologia del PC, senza entrare nel merito dei contenti della navigazione.

L’ex segretaria depositava ricorso per cassazione con due motivi.

La pronuncia

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando la propria decisione con argomenti di carattere processuale, nello specifico per difetto dei principi di specificità, di non contestazione nei precedenti gradi del giudizio e d’utilità (artt. 187 c.p.c. e 209 c.p.c.).

Confermando la statuizione della Corte d’Appello di Brescia, la Corte di legittimità ha affermato che “la condotta tenuta dalla lavoratrice, per come emersa sulla base degli elementi acquisiti – vale a dire 6.000 accessi ad Internet estranei all’ambito lavorativo, di cui 4.500 a Facebook, nel corso di 18 mesi, con il pc aziendale durante l’orario di lavoro, tra l’altro part-time, integra la violazione degli obblighi di diligenza e di buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa e non può, dunque, ritenersi di per sé legittima“.

Inoltre, continua la Corte di Cassazione, gli accessi alla pagina personale di Facebook risultano riferibili con certezza alla segretaria perché richiedono una password personale, conoscibile solamente dalla ricorrente stessa.

Ne deriva la legittimità del licenziamento comminato per giusta causa, in quanto il contegno della dipendente risulta di particolare gravità, in contrasto con l’etica comune, che si riflette negativamente sul rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.

Cassazione n. 3133-2019

Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.