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Divorzio: assegno di accompagnamento all’ex moglie per il figlio non riduce il mantenimento dell’ex marito

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L’ex marito aveva chiesto la revoca o la riduzione del contributo di mantenimento con la modifica delle condizioni di divorzio, già concordate dai coniugi.

La somma era pari ad € 300,00/mese e, il marito, aveva chiesto di portare l’assegno ad € 50,00 al mese poiché, la ex moglie aveva ricevuto una erogazione, da parte dell’INPS, con cadenza mensile, di €  520,29, a titolo di indennità di accompagnamento per il figlio della coppia.

Durante il divorzio, la ex moglie, non aveva rappresentato il mensile che percepiva, ma solo che era stata effettuata la presentazione della domanda all’Ente.

Qualora il ricorrente avesse saputo della somma riconosciuta in favore del figlio, avrebbe sicuramente proposto una somma minore per fare fronte anche alle proprie spese di vita.

Gli Ermellini, però, avevano valutato l’assegno erogato dall’INPS come una garanzia, in favore della ex moglie, della possibilità di disporre di risorse economiche ulteriori per fare fronte alla quota di propria spettanza degli esborsi ordinari e straordinari del figlio invalido.

In caso di allontanamento dalla casa coniugale e di richiesta di addebito, spetta al richiedente provare il nesso di causalità tra detto comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Il fatto

All’esito di un giudizio di separazione professionale, il Tribunale ha pronunciato l’addebito della stessa nei confronti del marito, per essersi allontanato dalla casa coniugale e la Corte d’Appello ha confermato la sentenza.

L’uomo ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, ritenendo né che la moglie avesse provato il rapporto di causalità tra detto allontanamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, né che sussistessero comportamenti contrari ai doveri coniugali previsti dalla legge.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 23284, pubblicata il 18 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Secondo la Corte, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, ma è necessario accertare se la violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale.

Questa prova, in ogni caso, spetta alla parte che richiede l’addebito della separazione all’altro coniuge, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda provare l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata violazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Una volta che un figlio abbia raggiunto una adeguata capacità lavorativa, e quindi l’indipendenza economica, la successiva perdita dell’occupazione non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento.

Il fatto

All’esito di un giudizio per la separazione dei coniugi, il Tribunale di Avellino non ha riconosciuto nei confronti dei due figli maggiorenni della coppia il diritto al mantenimento. Si è dimostrato, infatti, che gli stessi avessero iniziato a lavorare e, quindi, acquisito la capacità di produrre reddito.

La madre degli stessi, però, ha proposto appello, rilevando che non avrebbero raggiunto l’autosufficienza economica, svolgendo solamente attività occasionali. La Corte d’Appello di Napoli ha accolto l’impugnazione.

Il padre ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’acquisizione di un titolo di studio e l’acquisto del materiale necessario per svolgere una determinata professione o mestiere fossero elementi idonei per provare il raggiungimento di un’adeguata capacità lavorativa, nonostante la saltuarietà degli incarichi ricevuti.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 19696, pubblicata il 22 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto le ragioni del ricorrente.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di mantenimento dei genitori consiste nel dovere di assicurare ai figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età e in proporzione alle risorse economiche del soggetto obbligato, la possibilità di completare il percorso formativo prescelto e di acquisire la sua capacità lavorativa necessaria a rendersi autosufficiente.

L’ingresso effettivo nel mondo del lavoro con la percezione di una retribuzione, sia pure modesta, ma che prelude a rendimenti crescenti, segna la fine dell’obbligo di contribuzione da parte del genitore.

La successiva ed eventuale perdita dell’occupazione non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nell’ordinanza 11129/19, depositata il 19 aprile, ha affermato che al momento del decesso dell’ex coniuge, il superstite ha diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, o una quota di essa, solo se è titolare di un assegno divorzile.

Il fatto

Una donna, rimasta vedova, ha fatto domanda per vedersi riconosciuta la pensione di reversibilità del marito dal quale aveva divorziato.

L’assegno divorzile deve essere riconosciuto dal Tribunale con sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il Tribunale ha respinto la domanda sul rilievo che l’assegno stabilito in sede di separazione, di natura alimentare e fondato sul presupposto della permanenza del vincolo coniugale, non poteva continuare una volta dichiarata la cessazione degli effetti del matrimonio.

La Corte territoriale ha confermato quanto statuito dal Tribunale.

La pronuncia 

I motivi di impugnazione che sono stati sollevati dalla donna sono stati ritenuti infondati dalla Suprema Corte di Cassazione.

La Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla donna e ha condannato la stessa al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del contro ricorrente.

nessuna pensione di reversibilità se no titolari di assegno di divorzio

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Il fatto in sé dell’abbandono del tetto coniugale deve essere provato non solo con riferimento alla sua concreta verificazione, ma anche circa la sua efficacia determinativa dell’intollerabilità della convivenza e della rottura dell’affectio coniugalis.

Il fatto

All’esito di un procedimento per la separazione giudiziale dei coniugi, l’ex marito è stato condannato al pagamento di un assegno mensile a titolo di mantenimento sia nei confronti delle figlie, maggiorenni ma economicamente non autosufficienti, sia nei confronti dell’altro coniuge. Non è stata accolta, invece, la sua richiesta di addebito della separazione.

La Corte d’Appello ha confermato in toto la pronuncia di primo grado.

L’uomo ha, quindi, promosso ricorso per la cassazione della sentenza, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato la circostanza dell’abbandono del tetto coniugale da parte dell’ex moglie quale causa di addebito della separazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo inammissibile e ha, dunque, rigettato il ricorso.

In applicazione di un costante orientamento giurisprudenziale, infatti, “non costituisce violazione di un dovere coniugale la cessazione della convivenza quando ormai il legame affettivo fra i coniugi è definitivamente venuto meno e la crisi del matrimonio deve considerarsi irreversibile“.

L’allontanamento dalla casa coniugale, allora, per costituire giusta causa di addebito della separazione, deve essere in rapporto di causalità con l’intollerabilità della convivenza.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2480 del 29.01.19, ha specificato che la mancata richiesta di un contributo al mantenimento in sede di separazione, non preclude il riconoscimento di un assegno in sede di divorzio. Anzi, rappresenta un valido indicatore di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a procurare elementi valutativi sulle condizioni economiche dei coniugi.

Il fatto

A seguito della domanda di divorzio proposta dal marito nei confronti della moglie, il Tribunale di Ravenna, all’esito degli accertamenti disposti tramite Guardia di Finanza, determinava in euro 1.000,00 l’assegno divorzile a carico del marito nei confronti della moglie e in euro 1.300,00 l’importo da lui dovuto quale contributo economico per il figlio.

La Corte D’Appello di Bologna con sentenza 7.11.2014 riduceva l’assegno divorzile determinato dal Tribunale di Ravenna, evidenziando le “poliedriche capacità imprenditoriali” e la percezione di un reddito superiore a quello effettivamente dichiarato della moglie, riducendolo così, in euro 600,00. Per contro, non veniva accolta la riduzione dell’assegno in favore del figlio.

-La moglie, avverso tale sentenza ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi (1- violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per aver ritenuto che la stessa godesse di redditi maggiori di quelli dichiarati, nonostante le indagini della Guardia di Finanza non avessero autorizzato tale conclusione 2- violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. per aver valutato documentazione prodotta tardivamente 3- violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e art 116 c.p.c. per erronea applicazione delle norme in tema di prova presuntiva 4- violazione del principio perequativo previsto in tema di assegno divorzile.

-Il marito ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale per tre motivi, denunciando da opposta prospettiva le medesime statuizioni: a) mancata valutazione della documentazione in atti attestante l’autosufficienza economica della moglie b) omesso esame del fatto decisivo relativo alla mancata previsione di un assegno di mantenimento in sede di separazione consensuale” e violazione art. 5 L. 898/70.

La pronuncia

Le contrapposte censure in riferimento ai presupposti dell’assegno divorzile, per la corte sono fondate quelle della moglie e infondate quelle del marito.

La Cassazione, che è già intervenuta per definire e delineare la funzione e le caratteristiche dell’assegno divorzile (S.U. n. 11490 del 1990, Sez. I n. 11504 del 2017), con una recente sentenza, le Sezioni Unite n. 18287 del 2018, affermano che: “l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive del coniuge richiedente sia da riconnettere alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli durante lo svolgimento della vita matrimoniale e da ricondurre a determinazioni comuni, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età di detta parte”.

All’assegno divorzile, dunque, oltre alla natura assistenziale, deve attribuirsi sia una natura perequativo-compensativa, che permette al coniuge richiedente, il raggiungimento di un reddito adeguato all’apporto fornito nella realizzazione della vita familiare, sia una funzione equilibratrice, che permette di valorizzare il ruolo e il contributo fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio familiare.

La corte di cassazione, inoltre, specifica che: “la mancata richiesta di assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude di certo il suo riconoscimento in sede divorzile, ma può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi alle condizioni economiche dei coniugi (Cass. 11686 del 2013)”.

Pertanto, accoglie il quarto motivo del ricorso principale, rigetta il primo e il terzo del ricorso incidentale, assorbiti tutti gli altri, cassa e rinvia alla Corte D’Appello di Bologna in diversa composizione.

Sentenza2480

Dott. Tommaso Carmagnani

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto civile, con maggior riguardo al diritto di famiglia.

Le SS.UU. con sentenza n. 30657/2018 hanno disposto che, se in un giudizio di divorzio introdotto innanzi al giudice italiano, vi siano domande inerenti la responsabilità genitoriale di figli minori non residenti abitualmente in Italia, la giurisdizione spetta alla Autorità Giudiziaria del paese di residenza abituale del minore, ai sensi degli artt. 8, par. 1, del Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 3 del Regolamento CE n. 4 del 2009, poichè si tende a salvaguardare l’interesse preminente del minore e che i provvedimenti siano adottati dal giudice del luogo più vicino al medesimo.

Studio Legale Damoli

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