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Con la recente sentenza, pubblicata il 25 giugno scorso, la Corte di Cassazione ha riaffermato, nell’ambito della propria funzione nomofilattica, i requisiti che devono caratterizzare i criteri adottati dal Giudice del merito quando liquida il danno patrimoniale da lucro cessante, in particolare sotto il profilo del danno permanente da incapacità di guadagno.

Il fatto

Il signor P.D., giovane avvocato, a seguito di un sinistro stradale in cui il suo veicolo era stato investito dall’auto condotta da P.I., formulava richiesta di risarcimento dei danni all’impresa assicuratrice del veicolo antagonista la quale accordava il risarcimento, ammettendo l’esclusiva responsabilità del P.I. nella causazione dell’incidente.

Il P.D., il quale – si evince – aveva riportato lesioni permanenti invalidanti con importanti ripercussioni sulla propria vita privata e lavorativa, riteneva la somma liquidata dall’assicurazione non congrua e, pertanto, conveniva la compagnia avanti al Tribunale di Cremona chiedendo il risarcimento integrale dei danni subiti, quantificati in oltre due milioni di euro al netto della somma già ricevuta.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello di Brescia poi accoglievano parzialmente le istanze del P.D. in quanto, pur riconoscendo in entrambi i gradi di giudizio le basi per un’integrazione di quanto sino a quel momento ricevuto, riducevano sensibilmente le pretese risarcitorie in relazione al danno permanente da incapacità di guadagno.

Tale diversa quantificazione, sostiene il P.D., è errata in quanto da un lato si basa sull’applicazione dei coefficienti di capitalizzazione inseriti nelle tavole allegate al R.D. n. 1403/1922, ormai non più attuali, e dall’altro in quanto il calcolo risulta fatto tenendo conto di una base reddituale costante moltiplicata per gli anni residui di vita, mentre costituisce fatto noto che il reddito di un giovane professionista è destinato ad aumentare anno dopo anno.

Sulla base di questi motivi il P.D. ha quindi proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato l’errore di diritto lamentato dal ricorrente in relazione alla sentenza d’appello, la quale aveva disatteso un orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione, inaugurato nel 2015 e confermato anche nel 2019 con la sentenza n. 16913 in punto di quantificazione del danno permanente da incapacità di guadagno.

La Corte di Cassazione, infatti, illustra che, allo stato dell’arte, tale voce di danno “non può più liquidarsi utilizzando i coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D: n. 1403 del 1922 dal momento che questi (…) non sono più idonei a garantire un corretto risarcimento equitativo del danno e, pertanto, a rispettare il dettato dell’art. 1223 c.c.”.

Il Giudice del merito, infatti, pur nella sua autonoma scelta dei coefficienti di capitalizzazione che ritiene più idonei secondo il caso prospettato, deve tener conto di coefficienti supportati da basi scientifiche e attuali, come per esempio quelli utilizzati “per la capitalizzazione di rendite assistenziali o previdenziali o i coefficienti elaborati in dottrina”.

Quanto alla base imponibile da utilizzare per il calcolo, la Corte pur non affrontando il motivo specifico in quanto ritenuto assorbito, riprende quanto affermato nella propria sentenza n. 10499 del 28 aprile 2017: dovrà tenersi conto della retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza “desunta da parametri di rilievo normativo o altrimenti stimata in via equitativa”.

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Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

Con la risposta all’interpello n. 54 del 13 febbraio 2019, l’Agenzia delle Entrate ha dichiarato che il medico di base, che esercita la propria attività in regime di convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale, non deve emettere la fattura elettronica a favore della A.S.L. per i compensi percepiti.

Il quesito

Un medico di medicina generale convenzionato con l’A.S.L. (“medico di base” o “medico di famiglia”) ha interpellato l’Agenzia delle Entrate ponendo un duplice quesito.

Da un lato, ha chiesto se, a fronte del mutato quadro normativo, avesse l’obbligo di emettere la fattura elettronica per le prestazioni medico-sanitarie svolte in favore dell’ente.

Dall’altro, se fosse venuto meno l’obbligo di inviare all’Agenzia i dati relativi al cd. spesometro.

Il parere

L’Agenzia delle Entrate ha ricostruito la normativa vigente.

Come noto, ai sensi del D. Lgs. n. 127/2015, dal 1 gennaio 2019 “per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti o stabiliti nel territorio dello Stato, e per le relative variazioni, sono emesse esclusivamente fatture elettroniche“.

Sono, in ogni caso, esenti da tale regola generale sia i contribuenti che rientrano nel “regime dei minimi”, sia quelli che rientrano nel “regime forfetario”.

Altre eccezioni sono costituite, ad esempio, dalle vendite di beni al minuto, dalle prestazioni di trasporto di persone e dalle prestazioni alberghiere.

Questo intervento legislativo, poi, non ha modificato le previsioni del decreto IVA, che dettano le regole relative alla certificazione delle operazioni.

È tuttora in vigore, pertanto, il D.M. 31 ottobre 1974, secondo il quale, per le prestazioni medico-sanitarie, la fattura non è da emettere perché sostituita dal foglio di liquidazione dei corrispettivi.

Infine, ai sensi della Legge n. 205/2017, sempre dal 1 gennaio 2019, per tutti i contribuenti, è stato soppresso l’obbligo di invio dei dati relativi allo spesometro.

AdE_54_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.