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Il fatto in sé dell’abbandono del tetto coniugale deve essere provato non solo con riferimento alla sua concreta verificazione, ma anche circa la sua efficacia determinativa dell’intollerabilità della convivenza e della rottura dell’affectio coniugalis.

Il fatto

All’esito di un procedimento per la separazione giudiziale dei coniugi, l’ex marito è stato condannato al pagamento di un assegno mensile a titolo di mantenimento sia nei confronti delle figlie, maggiorenni ma economicamente non autosufficienti, sia nei confronti dell’altro coniuge. Non è stata accolta, invece, la sua richiesta di addebito della separazione.

La Corte d’Appello ha confermato in toto la pronuncia di primo grado.

L’uomo ha, quindi, promosso ricorso per la cassazione della sentenza, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato la circostanza dell’abbandono del tetto coniugale da parte dell’ex moglie quale causa di addebito della separazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo inammissibile e ha, dunque, rigettato il ricorso.

In applicazione di un costante orientamento giurisprudenziale, infatti, “non costituisce violazione di un dovere coniugale la cessazione della convivenza quando ormai il legame affettivo fra i coniugi è definitivamente venuto meno e la crisi del matrimonio deve considerarsi irreversibile“.

L’allontanamento dalla casa coniugale, allora, per costituire giusta causa di addebito della separazione, deve essere in rapporto di causalità con l’intollerabilità della convivenza.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari in favore di un cittadino extracomunitario, coniuge di un cittadino italiano, non necessita né del requisito oggettivo della convivenza tra gli stessi, né di quello del pregresso regolare soggiorno del richiedente.

Il fatto

Una cittadina marocchina ha contratto matrimonio con un cittadino italiano e ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di famiglia, con validità quinquennale.

In prossimità della scadenza, la stessa ha chiesto il rinnovo mediante rilascio del titolo permanente.

La Questura di Foggia ha rigettato la richiesta, avendo rilevato la carenza della convivenza coniugale.

Ella ha, dunque, impugnato il provvedimento di rigetto davanti all’autorità giudiziaria.

Sia il Tribunale di Foggia, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Bari, in secondo, tuttavia, non hanno accolto le ragioni della cittadina extracomunitaria.

Questa ha, allora, promosso ricorso per cassazione, in quanto il requisito dell’effettiva convivenza non sarebbe richiesto dalla legge per ottenere il permesso di soggiorno.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10925, pubblicata il 18 aprile 2019, ha accolto le ragioni della ricorrente e ha dichiarato la nullità del provvedimento di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di famiglia emesso dalla Questura di Foggia.

Ai sensi del D.Lgs. 30/2007, infatti, non risulta che la convivenza effettiva sia un criterio di riconoscimento iniziale o di conservazione del titolo di soggiorno.

È, invece, tuttora vigente il divieto di abuso del diritto e di frode, realizzabili mediante matrimoni fittizi contratti all’esclusivo fine di aggirare la normativa in materia di immigrazione.

Nel caso in esame, tuttavia, la Questura non ha contestato il carattere fittizio del matrimonio, bensì la diversa condizione della convivenza, che non costituisce però requisito oggettivo del diritto al soggiorno.

Il provvedimento, pertanto, risulta essere irrimediabilmente viziato.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Sezione Sesta, della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 9937/2019, depositata in data 09 aprile 2019, ha deciso che, gli sposi che hanno sottoscritto un contratto di banqueting con il proprietario di una villa per il loro matrimonio e decidono di cambiare la location, devono risarcire il proprietario.

Il fatto

Il Tribunale ha dato ragione al proprietario del ristorante dedicato alla celebrazione dei matrimoni, il quale nel contratto di banqueting ha inserito una clausula in caso di recesso da parte degli sposi.

Tale clausula prevedeva il pagamento di una penale nel caso in cui gli sposi avrebbero deciso di cambiare location.

Di tale avviso è stata anche la Corte territoriole, che ha escluso la riconducibilità della clausula nell’alveo delle vessatorie, precisando che, il consenso, è derivato da una contrattazione tra le parti.

La pronuncia 

La Cassazione ha respinto il ricorso promosso dagli sposi, precisando che non vi è alcuna vessatorietà nella clausula prevista dal contratto.

Specifica che è: «una consensuale previsione di una specifica facoltà assicurata al cliente dietro pagamento di un corrispettivo, variamente determinato in funzione dell’epoca dell’eventuale recesso».

In conclusione, tale pattuizione è derivata dalla volontà di entrambe le parti al momento della conclusione del contratto.

Contratto di banqueting sposi devono risarcire

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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