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La Cassazione civile, Sezione Lavoro, nella sentenza del 2019, ha precisato che nel caso di erroneo calcolo dei contributi da parte dell’INPS, la responsabilità ricade anche sull’assicurato.

Il fatto

Il caso in oggetto riguarda la richiesta effettuata da un contribuente al’Inps, riguardo alla sua posizione contributiva.

L’Istituto ha comunicato all’uomo che aveva i requisiti per il conseguimento della pensione d’anzianità, cosicché decise di dare le dimissioni dal posto di lavoro.

In seguito ricevette una comunicazione che, tale posizione contributiva, riguardava altra persona col medesimo cognome e data di nascita.

L’Inps inviò una raccomandata con richiesta di restituzione della somma erogata.

L’uomo agì per vie legali. 

La Corte territoriale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, diede ragione al contribuente con riconoscimento, però, del concorso colposo nella causazione del danno

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha affermato che l’Istituto è comunque responsabile dei dati forniti sulla posizione contributiva, però ha riscontrato, nel comportamento del contribuente, un concorso di colpa, poiché con l’ordinaria diligenza, chiunque ha il dovere di limitare e interrompere un eventuale danno.

Infine, la Corte ha rigettato entrambi i ricorsi proposti dall’Inps e dal contribuente.

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Lo stipendio da considerare come base di calcolo dell’indennità di buonuscita non corrisponde all’ultima retribuzione effettivamente percepita, bensì è quello relativo alla qualifica di appartenenza.

Il fatto

Un dipendente dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, inquadrato nel livello F5 del relativo CCNL, dopo aver ricoperto temporaneamente una posizione dirigenziale vacante, ha presentato domanda di collocamento in quiescenza.

L’INPDAP gli ha riconosciuto un’indennità di buona uscita parametrata al suo livello di inquadramento.

L’ex lavoratore, allora, ha agito in giudizio sia nei confronti dell’Agenzia, sia nei confronti dell’INPS (successore dell’INPDAP), per ottenere il riconoscimento del diritto al ricalcolo di detta indennità sulla base del trattamento retributivo relativo all’incarico dirigenziale ricoperto.

I giudici di merito, tuttavia, hanno rigettato la sua domanda.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’indennità dovesse essere calcolata sulla base dell’ultima retribuzione effettivamente percepita, relativa alle mansioni dirigenziali di fatto svolte.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 22011, pubblicata il 3 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Le Sezioni Unite di detta Corte, infatti, hanno già da tempo accolto l’orientamento secondo cui, nel regime d’indennità di buonuscita al pubblico dipendente che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo, sono da considerarsi inapplicabili i contratti collettivi per l’area dirigenziale.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Le buste paga rappresentano la copia di competenza del lavoratore del libro unico del lavoro. Esse fanno piena prova nei confronti del datore di lavoro e costituiscono una confessione stragiudiziale dello stesso, di cui il giudice deve necessariamente tenere conto.

Il fatto

Il Giudice delegato al fallimento di una società non ha ammesso il credito vantato da un lavoratore subordinato, perché non avrebbe fornito una prova sufficiente.

All’esito del conseguente giudizio di opposizione allo stato passivo, il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, ha riconosciuto solo parzialmente il credito del dipendente.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che le buste paga avrebbero di per sé dimostrato la sussistenza del rapporto e dei diritti vantati dal dipendente.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo fondato e ha, dunque, accolto il ricorso.

Secondo gli Ermellini, le buste paga consegnate ai dipendenti costituiscono dei documenti esattamente corrispondenti nel loro contenuto alle scritture che li riguardano all’interno del libro unico del lavoro.

Le copie delle stesse rilasciate dal datore di lavoro ai dipendenti, dunque, hanno piena efficacia probatoria del credito che questi ultimi intendono insinuare al passivo della procedura fallimentare riguardante il medesimo datore.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nell’ordinanza 11129/19, depositata il 19 aprile, ha affermato che al momento del decesso dell’ex coniuge, il superstite ha diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, o una quota di essa, solo se è titolare di un assegno divorzile.

Il fatto

Una donna, rimasta vedova, ha fatto domanda per vedersi riconosciuta la pensione di reversibilità del marito dal quale aveva divorziato.

L’assegno divorzile deve essere riconosciuto dal Tribunale con sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il Tribunale ha respinto la domanda sul rilievo che l’assegno stabilito in sede di separazione, di natura alimentare e fondato sul presupposto della permanenza del vincolo coniugale, non poteva continuare una volta dichiarata la cessazione degli effetti del matrimonio.

La Corte territoriale ha confermato quanto statuito dal Tribunale.

La pronuncia 

I motivi di impugnazione che sono stati sollevati dalla donna sono stati ritenuti infondati dalla Suprema Corte di Cassazione.

La Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla donna e ha condannato la stessa al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del contro ricorrente.

nessuna pensione di reversibilità se no titolari di assegno di divorzio

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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