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Nel caso in cui il danneggiato, in seguito ad un sinistro stradale, opti per l’esercizio dell’azione risarcitoria giudiziale nei confronti dell’impresa assicuratrice del proprio veicolo (cd. procedura di indennizzo diretto), l’invio della richiesta di risarcimento dovrà essere inviata “per conoscenza” anche alla compagnia assicurativa del veicolo responsabile, a pena di improponibilità della domanda.

Il fatto

Una automobilista si è fermata per far attraversare la carreggiata a un pedone, in prossimità delle apposite strisce.

La frenata ha preso alla sprovvista la conduttrice dell’autovettura che proveniva da tergo, la quale ha dunque tamponato la prima.

A seguito della denuncia del sinistro alla assicurazione del proprio veicolo e del ricevimento del diniego di risarcimento, la danneggiata ha citato in giudizio la responsabile del sinistro e l’assicurazione di quest’ultima, per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Quest’ultima impresa si è costituita eccependo l’improponibilità della domanda, non avendo ricevuto, nemmeno per conoscenza, la denuncia del sinistro per cui è causa.

La pronuncia

Il giudice di primo grado ha rigettato la domanda formulata, dichiarandola improponibile, e accogliendo l’eccezione della convenuta.

La procedura di indennizzo diretto costituisce una deroga al principio per cui “chi sbaglia paga”.

Nell’indennizzo diretto, infatti, la compagnia assicuratrice del mezzo danneggiato è chiamata a rispondere, in prima battuta, in virtù di una norma speciale. In ogni caso, è fatta salva la successiva regolazione del rapporto tra le due imprese assicuratrici.

L’assicuratore del veicolo responsabile del sinistro, pertanto, deve essere messo nella concreta possibilità di valutare l’opportunità dell’intervento in causa. Ciò accadrà solamente solo nell’ipotesi in cui sia stato effettivamente informato, mediante l’invio per conoscenza della lettera di messa in mora, della verificazione dell’evento, delle modalità di accadimento dei fatti e della sussistenza di eventuali danni risarcibili.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La costituzione di parte civile, esercitata nel procedimento definito con applicazione della pena su richiesta delle parti in sede di indagini preliminari, oltre a subire le preclusioni di cui all’articolo 444, comma 2, c.p.p. risulta illegittima se avviene nella specifica udienza di cui all’articolo 447 c.p.p..
La ratio della predetta, difatti, è quella di vagliare la conformità e l’adeguatezza dell’accordo raggiunto tra pubblico ministero ed imputato, a nulla rilevando i profili privatistici di risarcimento del danno fondanti la costituzione della parte eventuale all’interno del processo penale.
Neppure, se erroneamente lasciata costituire, la parte civile ha diritto al pagamento delle spese sostenute dovendosi ritenere, l’ultima parte del comma 2 dell’articolo 444 c.p.p., relativa ad una costituzione avvenuta antecedentemente alla formazione dell’accordo tra PM e imputato non potendosi porre, a carico del secondo, un atto processualmente inutile e superfluo come la costituzione di parte civile in sede d’udienza ex 447 c.p.p.

Il fatto

In data 29 novembre 2016, il Gip del Tribunale di Catania applicava all’imputato la pena, concordata a norma dell’articolo 444 c.p.p., per il reato di cui all’art. 609 undeces c.p. (adescamento di minori).
Con la suddetta sentenza il giudicante condannava l’imputato, altresì, al pagamento delle spese processuali per l’avvenuta costituzione di parte civile nella specifica udienza ex 447 c.p.p.
L’imputato proponeva ricorso alla Suprema Corte lamentando, quale unico motivo di doglianza, l’erronea condanna al pagamento delle suddette spese processuali per la costituzione della parte eventuale in tale sede ritenendo illegittima la statuizione del giudice catanese.

La pronuncia

Il ricorso appare fondato.
Il ragionamento dei giudici romani prende abbrivio dall’analisi dell’ultima parte del comma 2° dell’articolo 444 c.p.p. per il quale “se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda. L’imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che non ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale”.
La suddetta disposizione viene recepita in ossequio alla granitica decisione della Corte Cost. n. 443 del 1990 che dichiarava illegittimo l’articolo 444 c.p.p. nella parte in cui non riteneva di dover ristorare il danneggiato, legittimamente costituitosi parte civile all’interno di un procedimento definito, successivamente, con l’applicazione della pena su richiesta delle parti.
La Corte Costituzionale, dando rilievo al dettato di cui all’odierno art. 79 c.p.p. per il quale “La costituzione di parte civile può avvenire per l’udienza preliminare e, successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484” pone l’accento su un momento costitutivo in cui il danneggiato da reato, attraverso la costituzione, permane nell’aspettativa legittima di un concreto esercizio del suo diritto al risarcimento del danno subito o alle restituzioni.
Un errore di “tempismo”, pertanto, quello della costituzione avvenuta all’udienza ex 447 c.p.p. in quanto il danneggiato, «conoscendo in partenza l’oggetto del giudizio, ristretto alla decisione circa l’accoglibilità della richiesta di applicazione della pena su cui è intervenuto il patteggiamento tra imputato e pubblico ministero, non ha ragioni giuridiche per costituirsi parte civile» (in tal senso Cass. Pen. Sez. U, n. 47803 del 27/11/2008, D’Avino, Rv. 241356).
Trovava anche nel caso di specie applicazione il principio per cui all’udienza fissata in sede di indagini preliminari ex 447 c.p.p. non è consentita la costituzione di parte civile in quanto essa risulterebbe atto processualmente superfluo: se la richiesta concordata tra PM ed imputato fosse accolta, difatti, il gip non potrebbe pronunciarsi sulla questione civile mentre, se l’accordo avesse esito negativo, il danneggiato da reato potrebbe comunque costituirsi alla successiva udienza preliminare o antecedentemente all’apertura del dibattimento.
Dal principio sopra espresso consegue che l’errata costituzione non dia diritto al danneggiato per la restituzione delle spese sostenute essendo queste, giocoforza, ricollegate alla legittimità della costituzione stessa.
Per la Suprema Corte, in conclusione, non può essere posto a carico dell’imputato, anche in termini di costi e di spese sostenute, un atto processualmente inutile e privo di efficacia, illegittimo in quanto assolutamente ininfluente nella specifica udienza in questione.

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Avv. Giorgio Crepaldi

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Rovigo. È cultore della materia in Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Ferrara.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2480 del 29.01.19, ha specificato che la mancata richiesta di un contributo al mantenimento in sede di separazione, non preclude il riconoscimento di un assegno in sede di divorzio. Anzi, rappresenta un valido indicatore di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a procurare elementi valutativi sulle condizioni economiche dei coniugi.

Il fatto

A seguito della domanda di divorzio proposta dal marito nei confronti della moglie, il Tribunale di Ravenna, all’esito degli accertamenti disposti tramite Guardia di Finanza, determinava in euro 1.000,00 l’assegno divorzile a carico del marito nei confronti della moglie e in euro 1.300,00 l’importo da lui dovuto quale contributo economico per il figlio.

La Corte D’Appello di Bologna con sentenza 7.11.2014 riduceva l’assegno divorzile determinato dal Tribunale di Ravenna, evidenziando le “poliedriche capacità imprenditoriali” e la percezione di un reddito superiore a quello effettivamente dichiarato della moglie, riducendolo così, in euro 600,00. Per contro, non veniva accolta la riduzione dell’assegno in favore del figlio.

-La moglie, avverso tale sentenza ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi (1- violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per aver ritenuto che la stessa godesse di redditi maggiori di quelli dichiarati, nonostante le indagini della Guardia di Finanza non avessero autorizzato tale conclusione 2- violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. per aver valutato documentazione prodotta tardivamente 3- violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e art 116 c.p.c. per erronea applicazione delle norme in tema di prova presuntiva 4- violazione del principio perequativo previsto in tema di assegno divorzile.

-Il marito ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale per tre motivi, denunciando da opposta prospettiva le medesime statuizioni: a) mancata valutazione della documentazione in atti attestante l’autosufficienza economica della moglie b) omesso esame del fatto decisivo relativo alla mancata previsione di un assegno di mantenimento in sede di separazione consensuale” e violazione art. 5 L. 898/70.

La pronuncia

Le contrapposte censure in riferimento ai presupposti dell’assegno divorzile, per la corte sono fondate quelle della moglie e infondate quelle del marito.

La Cassazione, che è già intervenuta per definire e delineare la funzione e le caratteristiche dell’assegno divorzile (S.U. n. 11490 del 1990, Sez. I n. 11504 del 2017), con una recente sentenza, le Sezioni Unite n. 18287 del 2018, affermano che: “l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive del coniuge richiedente sia da riconnettere alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli durante lo svolgimento della vita matrimoniale e da ricondurre a determinazioni comuni, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età di detta parte”.

All’assegno divorzile, dunque, oltre alla natura assistenziale, deve attribuirsi sia una natura perequativo-compensativa, che permette al coniuge richiedente, il raggiungimento di un reddito adeguato all’apporto fornito nella realizzazione della vita familiare, sia una funzione equilibratrice, che permette di valorizzare il ruolo e il contributo fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio familiare.

La corte di cassazione, inoltre, specifica che: “la mancata richiesta di assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude di certo il suo riconoscimento in sede divorzile, ma può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi alle condizioni economiche dei coniugi (Cass. 11686 del 2013)”.

Pertanto, accoglie il quarto motivo del ricorso principale, rigetta il primo e il terzo del ricorso incidentale, assorbiti tutti gli altri, cassa e rinvia alla Corte D’Appello di Bologna in diversa composizione.

Sentenza2480

Dott. Tommaso Carmagnani

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto civile, con maggior riguardo al diritto di famiglia.