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Le prescrizioni dei segnali stradali verticali prevalgono rispetto a quelle dei segnali orizzontali, ai sensi dell’art. 38, comma 2, del Codice della Strada.

All’interno delle aree di sosta, le strisce orizzontali hanno solo funzione integrativa e sono obbligatorie solo quando gli stalli sono disposti “a spina di pesce” o “a pettine”.

Il fatto

Un automobilista ha parcheggiato il proprio veicolo lungo un tratto di strada con sosta a pagamento, privo tuttavia di strisce di delimitazione degli stalli.

Non ravvisando le strisce sull’asfalto, non ha pagato il corrispettivo per il posteggio.

La Polizia Locale di Messina ha emesso comunque una sanzione amministrativa nei suoi confronti, per sosta in parcheggio a pagamento senza esposizione del relativo tagliando.

Il proprietario dell’autoveicolo si è opposto alla stessa, promuovendo il ricorso davanti il Giudice di Pace locale, senza ottenere però l’accoglimento delle proprie ragioni.

Anche il Tribunale di Messina, in grado di appello, ha confermato il rigetto dell’opposizione.

Il soccombente ha quindi proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 6398, pubblicata il 5 marzo 2019, ha rigettato il ricorso perché infondato.

Il Tribunale, infatti, ha correttamente accertato la presenza della segnaletica verticale recante l’indicazione degli orari di sosta e delle tariffe. Questo è ritenuto sufficiente a segnalare la necessità di pagare il parcheggio per poter sostare.

A nulla è rilevato, invece, l’assenza di delimitazione degli stalli segnalati da strisce, essendo gli stessi paralleli all’asse stradale e per i quali l’art. 149, reg. att. C.d.S., non ha previsto l’obbligo di delimitazione.

Cass_6938_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 5794, pubblicata il 28 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha delineato la nullità del contratto di locazione stipulato verbalmente e ha riconosciuto il diritto dell’inquilino ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate al proprietario di casa.

Il fatto

Il proprietario di un appartamento lo ha affittato per il periodo dal marzo 2011 all’agosto 2012 al canone di 900 euro mensili, senza tuttavia registrare alcun contratto.

Nel marzo 2012, tuttavia, su richiesta dell’inquilino, il locatore ha registrato un contratto di locazione nel quale è previsto un canone inferiore a quello effettivamente corrisposto, pari a 400 euro mensili.

Il conduttore, allora, lo ha convenuto in giudizio chiedendo la restituzione delle somme indebitamente pagate, corrispondenti ad euro 500 mensili per tutta la durata del contratto.

Sia il Tribunale di Lucca, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Firenze, in secondo, hanno però rigettato la domanda. Secondo i giudici del merito, il contratto di locazione intercorso tra le parti non è ascrivibile alla categoria “contratti non registrati nel termine stabilito dalla legge”, essendovi prova che il contratto del marzo 2012 è stato registrato subito dopo la stipulazione.

L’inquilino ha promosso ricorso per cassazione in quanto il contratto stipulato prima del marzo 2012 sarebbe nullo per mancanza di forma scritta.

La pronuncia

La Cassazione ha accolto il ricorso ritenendolo fondato.

Come noto, la sentenza delle Sezioni Unite n. 18214/2015 ha affermato che i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati senza la forma scritta sono affetti da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, eccezion fatta per l’ipotesi in cui la forma verbale sia abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso la nullità (cd. di protezione) è rilevabile dal solo conduttore.

Nel caso, dunque, di contratto a forma verbale liberamente concordata tra locatore e conduttore trovano applicazione i principi generali in tema di nullità.

Di conseguenza, se da un lato il locatore può agire in giudizio per il rilascio dell’immobile occupato senza alcun titolo, dall’altro il conduttore può ottenere la parziale restituzione delle somme versate a titolo di canone in misura eccedente a quanto concordato.

Nella fattispecie concreta, i giudici di merito hanno erroneamente escluso la ripetizione di quanto pagato in più dal conduttore, facendo riferimento a quanto concordato tra le parti anziché al canone concordato dalle associazioni di categoria.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Legge di Bilancio 2019 (L. 30 dicembre 2018, n. 145, “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021“) ha previsto l’entrata in vigore dal 1° marzo 2019, fino al 31 dicembre 2021, di due misure volte a tutelare l’ambiente e la mobilità: l’ecobonus a favore di chi acquista auto a basso impatto ambientale e l’ecotassa per chi, invece, sceglie veicoli altamente inquinanti.

Il bonus

L’art. 1, comma 1031, della predetta Legge ha riconosciuto a chi acquista, anche in leasing, un veicolo nuovo del valore non superiore a 50 mila euro (IVA esclusa), l’emissione di un contributo parametrato ai grammi di CO2 emessi.

Se l’auto comprata non produce più di 20 g/km e contestualmente si consegna per la rottamazione un veicolo omologato alle classi Euro 1, 2, 3 o 4, l’incentivo è di 6 mila euro. È di 4 mila euro in assenza di rottamazione.

Se, invece, le emissioni di COsuperano i 21 g/km, ma non eccedono i 70 g/km, il contributo è di 2.500 euro, rottamando un veicolo rientrante nelle predette classi, o di 1.500 euro, se non si consegna alcuna auto.

Qualora, inoltre, l’auto sia elettrica o ibrida, di potenza inferiore o uguale a 11kW, è riconosciuto un contributo pari al 30% del prezzo di acquisto, fino ad un massimo di 3 mila euro.

Per potersi avvantaggiare dell’incentivo, in ogni caso, l’automobile deve essere immatricolata in Italia.

L’imposta

L’art. 1, comma 1042, della citata normativa ha penalizzato, invece, chi acquista, anche in leasing, automobili che emettono più di 160 g/km di CO2.

In particolare, sono previsti quattro scaglioni di imposta proporzionali alle emissioni di CO2:

  • se queste sono inferiori a 175 g/km, l’importo da pagare è di 1.100 euro;
  • se sono comprese tra i 176 e i 200 g/km, la somma è di 1.600 euro;
  • se rientrano tra i 201 e i 250 g/km, si dovranno pagare 2 mila euro;
  • se, infine, sono superiori a 250 g/km, l’esborso sarà di 2.500 euro.

Questa imposta si applica con riferimento a veicoli immatricolati in Italia, anche se in precedenza sono stati già immatricolati in altri Paesi.

 

 

 

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la risposta all’interpello n. 54 del 13 febbraio 2019, l’Agenzia delle Entrate ha dichiarato che il medico di base, che esercita la propria attività in regime di convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale, non deve emettere la fattura elettronica a favore della A.S.L. per i compensi percepiti.

Il quesito

Un medico di medicina generale convenzionato con l’A.S.L. (“medico di base” o “medico di famiglia”) ha interpellato l’Agenzia delle Entrate ponendo un duplice quesito.

Da un lato, ha chiesto se, a fronte del mutato quadro normativo, avesse l’obbligo di emettere la fattura elettronica per le prestazioni medico-sanitarie svolte in favore dell’ente.

Dall’altro, se fosse venuto meno l’obbligo di inviare all’Agenzia i dati relativi al cd. spesometro.

Il parere

L’Agenzia delle Entrate ha ricostruito la normativa vigente.

Come noto, ai sensi del D. Lgs. n. 127/2015, dal 1 gennaio 2019 “per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti o stabiliti nel territorio dello Stato, e per le relative variazioni, sono emesse esclusivamente fatture elettroniche“.

Sono, in ogni caso, esenti da tale regola generale sia i contribuenti che rientrano nel “regime dei minimi”, sia quelli che rientrano nel “regime forfetario”.

Altre eccezioni sono costituite, ad esempio, dalle vendite di beni al minuto, dalle prestazioni di trasporto di persone e dalle prestazioni alberghiere.

Questo intervento legislativo, poi, non ha modificato le previsioni del decreto IVA, che dettano le regole relative alla certificazione delle operazioni.

È tuttora in vigore, pertanto, il D.M. 31 ottobre 1974, secondo il quale, per le prestazioni medico-sanitarie, la fattura non è da emettere perché sostituita dal foglio di liquidazione dei corrispettivi.

Infine, ai sensi della Legge n. 205/2017, sempre dal 1 gennaio 2019, per tutti i contribuenti, è stato soppresso l’obbligo di invio dei dati relativi allo spesometro.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 3133/2019, pubblicata l’1 febbraio 2019, la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha confermato il licenziamento disciplinare nei confronti di una dipendente per aver effettuato molteplici accessi a Facebook durante l’orario di lavoro.

Il fatto

Il titolare di uno studio medico ha scoperto che la segretaria, in orario di lavorativo, ha effettuato circa 6 mila accessi al noto social network nel corso di 18 mesi di lavoro e, quindi, ha provveduto a licenziarla.

La lavoratrice ha provveduto ad impugnare il licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Brescia, prima, e la Corte d’Appello della medesima città, poi, hanno respinto i ricorsi, in quanto l’impiegata non ha mai negato di aver effettuato gli accessi contestati e dall’analisi della cronologia del computer alla stessa in uso sono emerse prove univoche del fatto.

Quest’ultima, allora, ha proposto ricorso per cassazione a fronte dell’impossibilità di fondare la decisione dei giudici sul report di cronologia: da un lato, perché non sarebbe possibile dimostrare la genuinità e la riferibilità alla lavoratrice degli accessi e, dall’altro lato, in quanto sarebbero state violate le regole sulla tutela della privacy.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato la censura perché inammissibile.

Quanto alle regole sulla privacy, la questione non è mai stata sollevata nel corso dei giudizi di primo e secondo grado. Essendo nuova, non è stato ammesso il suo ingresso in sede di legittimità.

Quanto all’idoneità probatoria della cronologia, i giudici di merito hanno correttamente valorizzato sia la mancata contestazione degli accessi da parte della dipendente, sia la necessità di inserire le proprie credenziali d’accesso (username e password) per entrare nella pagina personale Facebook.

Non è messa in dubbio, quindi, la riferibilità degli accessi alla lavoratrice.

Cass_3133_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 2905/2019, pubblicata il 22 gennaio 2019, la Quinta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha confermato la condanna nei confronti di un uomo per essere entrato senza autorizzazione nell’account Facebook della moglie.

Il fatto

Un signore ha fatto accesso al profilo del noto social network della consorte, utilizzando il nome utente e la password comunicatele dalla stessa molto tempo prima.

Così facendo, ha scoperto una chat intrattenuta dalla coniuge con un altro uomo, l’ha fotografata e ha cambiato la password d’accesso.

In seguito, ha utilizzato le schermate riproducenti quelle conversazioni nel giudizio di separazione personale.

Dapprima il Tribunale di Palermo e, in secondo grado, la Corte d’Appello della medesima città, hanno condannato il marito per il reato di cui all’art. 615 ter c.p., “accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico“, per aver violato la privacy della moglie senza la sua autorizzazione.

L’imputato ha proposto, quindi, ricorso per cassazione, lamentando la non applicabilità al caso di specie della norma predetta, essendo la password stata comunicata al compagno dalla stessa consorte.

La pronuncia

I giudici del Palazzaccio hanno dichiarato inammissibile il ricorso.

La circostanza che la coniuge avesse fornito le credenziali del proprio account social al marito, realizzando così un’implicita autorizzazione verso lo stesso, non ha escluso il carattere abusivo degli accessi.

Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi“.

Studio Legale Damoli

Cass_2905_2019

Con l’ordinanza n. 2748/2019, pubblicata il 30 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha ribadito il principio secondo cui gli agenti di polizia municipale possono accertare tutte le violazioni in materia di sanzioni amministrative alla condizione che siano effettivamente in servizio.

Il fatto

Un Comandante di Polizia Municipale, fuori servizio e con abiti civili, ha colto in flagrante un automobilista nell’effettuare un sorpasso a velocità non adeguata e in prossimità di un’incrocio.

Lo stesso agente, quindi, è intervenuto contestando al conducente del veicolo la violazione dell’art. 148 del Codice della Strada e irrogando la relativa sanzione.

Quest’ultimo ha impugnato il verbale di contestazione dapprima davanti al Giudice di Pace di Modena e, in seguito, dinanzi al Tribunale di Modena, quale giudice di secondo grado.

Entrambe le pronunce ottenute, tuttavia, hanno rigettato la sua opposizione al verbale della Polizia Municipale.

L’automobilista ha, quindi, proposto ricorso per cassazione, deducendo l’illegittimità del verbale per essere stato reso da un agente non in servizio al momento della trasgressione.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno accolto il ricorso in quanto fondato.

Il Tribunale di Modena ha errato nel contrapporre la Polizia Giudiziaria ad “altri corpi”, tra cui la Polizia Municipale, i quali opererebbero su tutto il territorio nazionale e sarebbero sempre in servizio.

In primo luogo, perché la polizia giudiziaria non è un corpo, ma una funzione.

Secondariamente, in quanto, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, “gli appartenenti alla polizia municipale […] hanno la qualifica di agenti di polizia giudiziaria soltanto nel territorio di appartenenza e limitatamente al tempo in cui sono in servizio e ciò a differenza di altri corpi, quali la Polizia di Stato, i Carabinieri, la Guardia di Finanza etc., i cui appartenenti operano su tutto il territorio nazionale e sono sempre in servizio“.

Il Comandante che nel caso di specie ha emesso la sanzione amministrativa, pertanto, non rivestendo in quel momento la qualifica di agente di polizia giudiziaria, non avrebbe dovuto redigere alcun verbale di contestazione.

Studio Legale Damoli

Cass_2748_2019

Con l’ordinanza n. 2531/2019, pubblicata il 30 gennaio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che il conducente di un autoveicolo è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero.

Il fatto

A seguito di un incidente stradale, il danneggiato terzo trasportato ha citato in giudizio il proprietario della vettura danneggiante, la compagnia assicurativa di quest’ultimo ed il conducente del veicolo danneggiato, per accertare la responsabilità del primo nella causazione del sinistro ed ottenere il risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non.

Si è costituita l’assicurazione, eccependo che le lesioni subite dall’attore si sono verificate per l’esclusiva e determinante responsabilità dello stesso, in quanto non ha indossato le cinture di sicurezza.

Il Tribunale di Cosenza ha condannato i convenuti in solido al risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale futuro subito dall’attore.

Sull’impugnazione proposta dalla compagnia assicurativa, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rivalutato le prove e ha ritenuto incompatibili le lesioni riportate dal danneggiato e l’uso delle cinture di sicurezza. Di conseguenza, ha riconosciuto il concorso tra il comportamento del danneggiante e quello del danneggiato, riducendo proporzionalmente il risarcimento, in ragione dell’entità del contributo causale di quest’ultimo alla produzione del danno, ed escludendo in toto il danno patrimoniale, perché riconducibile al comportamento dello stesso.

Il danneggiato ha quindi proposto ricorso per cassazione perché i giudici di secondo grado avrebbero errato nell’escludere il nesso causale tra la condotta del conducente e la produzione del danno e nel non rilevare che, pur in presenza di una riduzione del risarcimento dovuto al concorso di colpa del danneggiato, è rimasto fermo il nesso causale tra la condotta del conducente ed il danno.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le ragioni del ricorso. Il comportamento colpevole del danneggiato, infatti, non può in alcun caso interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente del veicolo e la produzione del danno.

Ha ribadito, poi, il consolidato principio (già espresso in Cass. 18177/2007) secondo il quale il conducente è responsabile dell’utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero. La causazione del danno da mancato utilizzo, quindi, è imputabile sia all’uno che all’altro. Ciò in quanto il conducente ha l’obbligo di mettere in circolazione il veicolo in condizioni di sicurezza. Deve controllare, cioè, che la marcia avvenga in conformità delle norme di prudenza e sicurezza anche nell’ipotesi in cui il trasportato, accettando i rischi della circolazione, cooperi colposamente nella condotta causativa dell’evento dannoso.

Nell’ipotesi di danno al trasportato, allora, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea ad escludere di per sé la responsabilità del conducente, può certamente costituire un contributo colposo alla verificazione del danno.

Studio Legale Damoli

Cass_2531_2019

Con la recente sentenza n. 1028 del 16 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio (già espresso, da ultimo, in Cass. n. 11028/2016) secondo il quale per privare di valore probatorio un foglio firmato totalmente o parzialmente in bianco, è necessaria la querela di falso e non il semplice disconoscimento di scrittura privata.

Il fatto

Nell’ambito di una compravendita di un’autovettura, il rivenditore ha consegnato l’automobile all’acquirente, provvedendo anche ad effettuare il passaggio di proprietà, mentre quest’ultimo ha pagato il prezzo del bene ed ha consegnato una fotocopia della propria patente, sottoscrivendola e indicando il proprio numero di telefono.

In un secondo momento, il commerciante ha riportato su questo foglio, di suo pugno, alcune righe di testo per obbligare il compratore a pagare un prezzo superiore rispetto a quello pattuito. Poi lo ha citato in giudizio per ottenere il pagamento, per l’intero, dell’importo maggiorato.

Il cliente, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’avvenuto pagamento della minor somma realmente pattuita e ha disconosciuto, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., il contenuto della scrittura privata intercorsa tra le parti.

Il Tribunale e, poi, la Corte d’Appello di L’Aquila hanno accolto la domanda del concessionario, condannando l’acquirente alla corresponsione, per l’intero, dell’importo più elevato.

La pronuncia

Anche i giudici del Palazzaccio hanno dato ragione al venditore, in quanto il compratore ha errato nella scelta dello strumento processuale: anziché proporre il disconoscimento della scrittura privata, avrebbe dovuto proporre la querela di falso.

Sul documento in questione, infatti, vi è rappresentata la copia fotostatica della patente del cliente, la sua sottoscrizione ed il suo recapito telefonico, oltre al testo riportato dal venditore. L’acquirente non ha contestato l’autenticità della firma collocata in calce alla scrittura, riconoscendo come proprio anche il documento d’identità raffigurato, ma ha unicamente disconosciuto il contenuto dell’atto. In sostanza, ha negato formalmente che il testo del documento fosse scritto di suo pugno, ma ha confermato che la sottoscrizione fosse la sua.

Quest’ultima, tuttavia, ai sensi dell’art. 2702 c.c., “vale ad ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternità dello scritto indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore“.

Pertanto, per contestare la verità del testo e superare la predetta presunzione, cioè per denunciare il riempimento abusivo di un foglio absque pactis, sarebbe stata necessaria la querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e seguenti c.p.c..

Studio Legale Damoli

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