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La recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, n. 18411/2019, depositata in data 09 luglio 2019, ha stabilito che si può perdere il posto di lavoro, per giusta causa, se si fa un utilizzo improprio dei permessi della L.104/1992.

Il fatto

Nel caso oggetto di controversia, al lavoratore viene intimato un licenziamento per giusta causa per aver abusato dei permessi ex art. 33, comma 3, della L. 104/92.

Il datore di lavoro ha assunto una agenzia investigativa al fine di controllare l’operato del lavoratore nei giorni di permesso concessi per assistere la zia, in tali giorni, il lavoratore, non si era mai recato presso l’abitazione.

In primo e secondo grado è stato confermato il licenziamento per giusta causa.

La pronuncia 

La Suprema Corte, a seguito del ricorso del lavoratore, ha rigettato i motivi e ha confermato quanto disposto dalla Corte territoriale.

Gli Ermellini hanno precisato che il datore ha la facoltà di assumere una agenzia investigativa, purchè questa operi lecitamente e non violi la privacy del lavoratore.

Sent lavoro legge 104

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Suprema Corte di Cassazione, confermando la statuizione della Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 11539, depositata il 2 maggio 2019, ha escluso la legittimità del licenziamento comminato ad un quadro, in quanto gli addebiti di inadempienza erano prive di specifiche direttive ed oggetto.

Il fatto

Il ricorrente fu destinatario dei seguenti addebiti: “a) nell’invio di una polemica ed irrispettosa lettera a cinque superiori prima della formalizzazione dell’incarico poi affidatogli per un progetto da sviluppare, b) nell’aver frapposto svariate difficoltà di ordine personale e professionale durante l’intero corso della missione e nell’aver presentato in ritardo un testo progettuale del tutto carente, c) nella recidiva in cui il dipendente era incorso per la sanzione della sospensione di 8 giorni irrogatigli nel 2011 “

Secondo il Giudice del gravame i fatti contestati all’ex dipendente non integrano gli estremi, né di un licenziamento per giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, né di un recesso datoriale per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, la comunicazione inviata ai dirigenti superiori, che la società sosteneva contenere espressioni offensive o sgarbate, risultava essere una semplice missiva priva di insulti in cui il dirigente esprimeva i propri dubbi in merito al nuovo incarico affidatogli, riguardante l’organizzazione di un progetto in Ungheria.

Inoltre, il datore di lavoro, impartendo un incarico di scarsa definizione dell’oggetto e in assenza di preliminari colloqui con il dipendente diretti a chiarire le sue mansioni, violava i principi di correttezza e buona fede, che si concretizzava: a) nella tardiva reprimenda a fini disciplinari fatta al ricorrente per la lettera da lui inviata ai superiori in data 26.7.2011, b) nel non aver considerato che, sin dal 11.8.2011, il dipendente aveva inviato al suo diretto superiore la bozza preliminare del suo studio, poi approfondita e completa il 31.8.2011.

Si escludeva infine la scarsa qualità dell’elaborato/progetto in quanto la società non avrebbe promosso precise e concrete contestazioni di errori tecnici, documentali e formali, ma addebitava solamente una “mancanza di impaginazione e di titoli giusti, all’uso di un programma informatico piuttosto che un altro”.

L’ex datore di lavoro depositava ricorso per cassazione con unico motivo, deducendo l’inosservanza degli artt. 2119 c.c. e 3 St. Lav. per aver inquadrato gli addebiti solo nel suo complesso, in violazione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondi cui anche una unica contestazione grave legittima il licenziamento per giusta causa.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per cassazione, confermando che non necessariamente l’esistenza della giusta causa di recesso debba essere ritenuta idonea al complesso dei datti contestati, ma bensì ciascuno di essi possono giustificare l’espulsione per violazione del vincolo fiduciario (cfr. Cass. n. 1062/2012).

Infatti, il giudice di merito ha il dovere di valutare in concreto ogni singola inadempienza, anche in riferimento al contesto complessivo della contestazione.

Ne deriva l’illegittimità del recesso datoriale qualora le contestazioni addebitate fossero prive di concrete e specifiche direttive ed oggetto.

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Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.

Le buste paga rappresentano la copia di competenza del lavoratore del libro unico del lavoro. Esse fanno piena prova nei confronti del datore di lavoro e costituiscono una confessione stragiudiziale dello stesso, di cui il giudice deve necessariamente tenere conto.

Il fatto

Il Giudice delegato al fallimento di una società non ha ammesso il credito vantato da un lavoratore subordinato, perché non avrebbe fornito una prova sufficiente.

All’esito del conseguente giudizio di opposizione allo stato passivo, il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, ha riconosciuto solo parzialmente il credito del dipendente.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che le buste paga avrebbero di per sé dimostrato la sussistenza del rapporto e dei diritti vantati dal dipendente.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo fondato e ha, dunque, accolto il ricorso.

Secondo gli Ermellini, le buste paga consegnate ai dipendenti costituiscono dei documenti esattamente corrispondenti nel loro contenuto alle scritture che li riguardano all’interno del libro unico del lavoro.

Le copie delle stesse rilasciate dal datore di lavoro ai dipendenti, dunque, hanno piena efficacia probatoria del credito che questi ultimi intendono insinuare al passivo della procedura fallimentare riguardante il medesimo datore.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 7641 del 19 marzo 2019, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente che, sotto infortunio con indicazione di riposo e cure, svolgeva una seconda attività lavorativa, violando così gli obblighi contrattuali di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede.

Il fatto

I primi due gradi di giudizio di merito hanno confermato la liceità del recesso datoriale comminato ad un dipendente, il quale svolgeva durante il periodo di assenza per morbosità altra attività subordinata, nello specifico guidava automezzi ed effettuava operazioni di scarico/carico di cerchi in lega per autovetture, compromettendo e ritardando la guarigione.

L’ex dipendente proponeva ricorso in Cassazione ed il datore di lavoro si costituiva tramite controricorso.

La pronuncia

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando quanto segue.

Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, correttamente condiviso dalla Corte d’Appello di Napoli, lo svolgimento di una seconda attività lavorativa subordinata, durante il periodo di assenza per infortunio, integra una grave violazione degli obblighi contrattuali “di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. (Cass. n. 26496/2018; conforme, fra le più recenti, Cass. n. 10416/2017)”.

Ne consegue la legittimità del licenziamento per giusta causa per notevole inadempimento contrattuale, a prescindere dalla previsione di tale fattispecie nel contratto collettivo o nel codice disciplinare.

Sentenza n. 7641 19 marzo 2019

Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.

Con la sentenza n. 3133/2019, pubblicata l’1 febbraio 2019, la Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione ha confermato il licenziamento disciplinare nei confronti di una dipendente per aver effettuato molteplici accessi a Facebook durante l’orario di lavoro.

Il fatto

Il titolare di uno studio medico ha scoperto che la segretaria, in orario di lavorativo, ha effettuato circa 6 mila accessi al noto social network nel corso di 18 mesi di lavoro e, quindi, ha provveduto a licenziarla.

La lavoratrice ha provveduto ad impugnare il licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Brescia, prima, e la Corte d’Appello della medesima città, poi, hanno respinto i ricorsi, in quanto l’impiegata non ha mai negato di aver effettuato gli accessi contestati e dall’analisi della cronologia del computer alla stessa in uso sono emerse prove univoche del fatto.

Quest’ultima, allora, ha proposto ricorso per cassazione a fronte dell’impossibilità di fondare la decisione dei giudici sul report di cronologia: da un lato, perché non sarebbe possibile dimostrare la genuinità e la riferibilità alla lavoratrice degli accessi e, dall’altro lato, in quanto sarebbero state violate le regole sulla tutela della privacy.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato la censura perché inammissibile.

Quanto alle regole sulla privacy, la questione non è mai stata sollevata nel corso dei giudizi di primo e secondo grado. Essendo nuova, non è stato ammesso il suo ingresso in sede di legittimità.

Quanto all’idoneità probatoria della cronologia, i giudici di merito hanno correttamente valorizzato sia la mancata contestazione degli accessi da parte della dipendente, sia la necessità di inserire le proprie credenziali d’accesso (username e password) per entrare nella pagina personale Facebook.

Non è messa in dubbio, quindi, la riferibilità degli accessi alla lavoratrice.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.