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Amministratore di sostegno e decesso del tutelato:

L’Amministratore di sostegno, qualora venga autorizzato dal Giudice Tutelare, può provvedere al pagamento di debiti e spese funerarie del deceduto anche prima della successione.

Pertanto ha la facoltà di non prendere in considerazione il blocco dei conti correnti imposto dalla Banca al momento del decesso.

L’Agenzia delle Entrate, in risposta ad un interpello del marzo 2022, si è espressa in merito alla richiesta, da parte di una Banca, di come comportarsi riguardo al pagamento delle spese, post mortem, che l’AdS sottopone all’Istituto di credito.

L’Istante fa presente che, qualora rifiutasse di ottemperare ai provvedimenti del Giudice Tutelare, incapperebbe nella violazione dell’art. 388 c.p. configurando un comportamento penalmente rilevante con conseguenze sia sotto il profilo del TUS sia di natura fiscale.

In definitiva, l’Agenzia delle Entrate si è espressa specificando che qualora vi siano dei provvedimenti emessi dall’Autorità giudiziaria, su richiesta dell’AdS, l’Istituto bancario deve provvedere al pagamento delle spese documentate non incorrendo, così, in violazioni punibili.

 

La sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione al fine di stabilire se l’organizzazione sia limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse di quest’ultimo, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie.

Il fatto

Per un periodo di oltre 17 anni, un ragazzo ha lavorato presso uno studio legale.

Egli, rispettando i propri compiti, ha seguito i clienti e le direttive del titolare di studio (unico a firmare gli atti), ha osservato l’orario di lavoro imposto dall’organizzazione dello studio e ha svolto le mansioni di supporto a quelle dell’avvocato, sotto la vigilanza dello stesso.

Al termine del rapporto di lavoro, ha citato in giudizio il predetto avvocato per ottenere il pagamento delle differenze retributive spettantegli, potendo lo stesso rapporto essere qualificato come di lavoro subordinato.

La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, ha dato ragione al praticante.

Il dominus, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo illegittima la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato.

La pronuncia

Con la sentenza n. 22634, pubblicata il 10 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici hanno precisato che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.

Nel caso di specie, il rapporto tra praticante e dominus rientra in quello disciplinato dall’art. 2094 c.c., perché il primo ha lavorato all’interno dello studio del secondo, ha intrattenuto rapporti con i clienti dello stesso, ha svolto attività legale anche se privo del titolo di avvocato, di cui il dominus si è assunto la paternità, e ha ricevuto quotidiane direttive sulle attività da svolgere.

Tali elementi sono stati sufficienti a far ritenere sussistente il rapporto di subordinazione.

Cass_22634_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con la sentenza n. 2190 del 20 maggio 2019, il Tribunale di Bari ha chiarito e ribadito il valore processuale della quietanza liberatoria

Il fatto

All’origine della lite, vi era un contratto di cessione del credito.

Tuttavia, la parte cedente conveniva in giudizio la cessionaria chiedendo condanna della stessa a causa del supposto mancato pagamento del prezzo pattuito.

Costituitosi in giudizio, il convenuto eccepiva l’infondatezza della domanda attorea giacché, in una successiva scrittura privata, parte attrice aveva fornito alla convenuta ampia quietanza liberatoria.

La pronuncia

Il Tribunale ha affermato che la quietanza è un atto unilaterale recettizio e non negoziale in quanto forma una dichiarazione di scienza con cui un soggetto riconosce quanto è stato prestato da taluno.

Dovendosi attribuire a tale atto la qualifica di confessione stragiudiziale, quest’ultimo assume valore probatorio di piena prova che preclude la prova contraria circa l’avvenuto pagamento del debito.

Il Tribunale ha anche chiarito che la dichiarazione contenuta nella quietanza, essendo irrevocabile, può essere invalidata solo dando la prova dell’errore o della coercizione.

Non ricorrendo nel caso di specie simili circostanze il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda.

Trib. bari

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Il Tribunale di Udine, con sentenza 1242/2018, in una controversia opponente un appaltatore e una pubblica amministrazione appaltatrice in materia di esecuzione di un appalto pubblico, si è espresso sul lanoso problema della giurisdizione.

Il fatto

È noto, infatti, che a più riprese sia posta la necessità di comprendere dove debba essere individuato lo spartiacque tra la giurisdizione del giudice ordinario e la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai contratti d’appalto e concessione pubblici.

Spesso la giurisprudenza ha posto tale confine individuando il momento fondativo della giurisdizione ordinaria nella stipula del contratto e, pertanto, in una fase a valle delle operazioni di gara.

Il caso di specie era, tuttavia, particolare giacché il contratto non era mai stato sottoscritto.

La pronuncia

Il Tribunale ha fissato tale regula iuris: in materia di appalti di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sole controversie relative alle procedure di affidamento dei lavori, che si concludono con l’aggiudicazione.

Ogni controversia derivante dall’esecuzione del contratto nascente da condotte ascrivibili alla P.A. o alla parte privata, nella fase di espletamento del servizio oggetto della procedura d’evidenza pubblica, seppur precedente la stipulazione del contratto, è devoluta alla giurisdizione ordinaria.

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Il fatto in sé dell’abbandono del tetto coniugale deve essere provato non solo con riferimento alla sua concreta verificazione, ma anche circa la sua efficacia determinativa dell’intollerabilità della convivenza e della rottura dell’affectio coniugalis.

Il fatto

All’esito di un procedimento per la separazione giudiziale dei coniugi, l’ex marito è stato condannato al pagamento di un assegno mensile a titolo di mantenimento sia nei confronti delle figlie, maggiorenni ma economicamente non autosufficienti, sia nei confronti dell’altro coniuge. Non è stata accolta, invece, la sua richiesta di addebito della separazione.

La Corte d’Appello ha confermato in toto la pronuncia di primo grado.

L’uomo ha, quindi, promosso ricorso per la cassazione della sentenza, in quanto i giudici di merito non avrebbero considerato la circostanza dell’abbandono del tetto coniugale da parte dell’ex moglie quale causa di addebito della separazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo inammissibile e ha, dunque, rigettato il ricorso.

In applicazione di un costante orientamento giurisprudenziale, infatti, “non costituisce violazione di un dovere coniugale la cessazione della convivenza quando ormai il legame affettivo fra i coniugi è definitivamente venuto meno e la crisi del matrimonio deve considerarsi irreversibile“.

L’allontanamento dalla casa coniugale, allora, per costituire giusta causa di addebito della separazione, deve essere in rapporto di causalità con l’intollerabilità della convivenza.

Cass_11162_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio è tornato ad esprimersi sul lanoso problema della relazione tra Ordinamento Statale e Ordinamento dello Sport con la Sentenza n. 2140 del 27.03.2019.

Il fatto

Il ricorrente era stato eletto consigliere di un’associazione sportiva affiliata ad una federazione sportiva riconosciuta dal C.O.N.I. Tuttavia, la Commissione di Disciplina della federazione interessata aveva deciso che l’elezione non potesse essere convalidata per ragioni legate all’ineleggibilità del ricorrente.

Il ricorrente esaurite tutte le vie di ricorso dinnanzi agli organi di giustizia sportiva, aveva introdotto ricorso al T.A.R. funzionalmente competente avverso le decisioni assunte in ambito sportivo.  Il giudice adito ha però rigettato il ricorso per difetto di giurisdizione. La sentenza assume particolare interesse giacché ribadisce quale sia la corretta lettura ermeneutica da dare alle norme che devono guidare l’interprete nell’individuazione del confine tra giurisdizione statale e sportiva.

Il giudice speciale ricorda che in virtù del principio di autonomia tra i due ordinamenti, l’art. 2 della Legge n. 280/2003 permette d’individuare quali siano i casi toccati dal difetto di giurisdizione:

  • osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;
  • i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.

L’art. 3, infine, pone il principio secondo cui esauriti i gradi della giustizia sportiva ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’art. 2, sia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La pronuncia

Il T.A.R. ha confermato che, escluse le controversie aventi rilevanza per l’Ordinamento Statale tali perché riguardanti interessi legittimi o diritti soggettivi, la giustizia sportiva costituisce l’unico strumento di tutela per le ipotesi in cui si discuta circa la corretta applicazione delle regole sportive.

La lite all’origine del ricorso concernendo l’eleggibilità del ricorrente quale consigliere di un’associazione sportiva riguarda, in ultima analisi, l’osservanza delle norme regolamentari, organizzative e statutarie di una federazione sportiva.

È indubbio che tali controversie debbano essere ricondotte nella sfera di autonomia riservata all’Ordinamento dello Sport. Da tanto ne discende che la questione relativa all’ineleggibilità del ricorrente per una carica sociale, non palesando rilevanza esterna all’ordinamento sportivo e rientrando tra le materie dell’art. 2 della Legge n. 280/2003, imponga al Tribunale Amministrativo di dichiarare il difetto di giurisdizione.

Sentenza T.A.R. ord statale e ordinamento sportivo

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

La domanda di risarcimento dei danni conseguenti ad affermazioni offensive contenute in scritti difensivi e rivolte nei confronti del giudice che sta trattando la causa deve essere proposta in separato giudizio, ai sensi dell’art. 89 c.p.c..

Il fatto

Nel corso di una causa trattata davanti all’Ufficio del Giudice di Pace di Apricena, la società convenuta ha inserito in un atto giudiziario una serie di considerazioni lesive del prestigio professionale e dell’onore del giudicante, oltre ad aver presentato otto istanze di ricusazione nei suoi confronti, tutte rigettate.

Il Giudice di Pace, allora, ha citato in giudizio questa società per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti, essendo integrati i presupposti per i reati di ingiuria e diffamazione.

Sia il Tribunale di Lucera, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Bari, in secondo, tuttavia, hanno rigettato la domanda per due motivi.

In primo luogo, perché la richiesta avrebbe dovuto essere formulata nei confronti del legale della società, essendo egli l’autore degli atti giudiziari.

In secondo luogo, perché, ai sensi dell’art. 89 c.p.c., la domanda risarcitoria avente ad oggetto frasi offensive contenute negli scritti difensivi presentati davanti all’autorità giudiziaria avrebbe dovuto essere sanzionata nell’ambito dello stesso giudizio.

Il soccombente ha quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 4733, pubblicata il 19 febbraio 2019, la Suprema Corte ha accolto i motivi del Giudice di Pace, perché fondati.

Da un lato, in quanto, essendo le offese rivolte nei confronti del giudice e non nei confronti dell’altra parte processuale o dell’altro difensore, non è applicabile l’art. 89 c.p.c..

Dall’altro lato, in quanto, in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, “il destinatario della domanda (…) è sempre e solo la parte, la quale – se condannata – potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni“.

Il giudice ha dunque correttamente proposto la domanda risarcitoria e ha ricevuto il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti.

Cass_4733_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.