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Per poter fruire dei benefici “prima casa”, l’acquirente deve poter dichiarare, nell’atto di acquisto, di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare.

Il fatto

Un soggetto è proprietario di due immobili siti nel medesimo Comune.

Il primo, nel quale vive, è stato acquistato con le agevolazioni “prima casa”.

Il secondo, che è invece concesso in locazione, è stato acquistato senza fruire di queste agevolazioni fiscali.

Egli decide di vendere la propria abitazione e di comprarne un’altra, sempre nel medesimo Comune.

A suo parere, quest’ultima può essere acquistata fruendo nuovamente delle agevolazioni “prima casa”.

Infatti, la recentissima giurisprudenza della Cassazione sostiene che dette agevolazioni debbano essere estese anche a chi è proprietario di un immobile già concesso in locazione, sito nel medesimo luogo, in quanto sottoposto ad un vincolo giuridico che rende tale alloggio giuridicamente inidoneo ad essere abitato.

La pronuncia

L’Agenzia delle Entrate è, però, di parere contrario rispetto a quello della Suprema Corte.

Per poter fruire di queste agevolazioni fiscali, la normativa impone il rispetto di tre condizioni:

  1. che l’immobile sia ubicato nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca la propria residenza entro 18 mesi dall’acquisto;
  2. che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, ad alcun titolo, di altra casa situata nello stesso Comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
  3. che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, ad alcun titolo, di altro immobile nel territorio nazionale acquistato con la medesima agevolazione.

È necessario, pertanto, che il secondo immobile eventualmente posseduto sia assolutamente inidoneo all’uso abitativo.

L’indisponibilità giuridica dovuta al contratto di locazione, tuttavia, non corrisponde a tale concetto di inidoneità.

Di conseguenza, l’agevolazione prima casa non può essere applicata al caso di specie.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

 

Il T.A.R. Campania, con una sentenza del 2019, ha affermato che la stipulazione del contratto di locazione non sia idonea a escludere i doveri di controllo, cura e vigilanza sorti in capo al proprietario dell’immobile, che è responsabile degli abusi edilizi commessi dal conduttore, al quale ha trasferito la disponibilità materiale e il godimento del bene.

Il fatto

Il proprietario di un immobile impugnava l’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, emessa dal Comune di Pagani, perché aveva appreso dell’esistenza di interventi abusivi realizzati dal conduttore solo a seguito della notifica del provvedimento.

Il Comune e il conduttore non si costituivano in giudizio.

La pronuncia

Il T.A.R. Salerno, aderendo ad un orientamento consolidato della giurisprudenza, ha ritenuto che sia indifferente la circostanza che il proprietario dell’immobile, sul quale è stato realizzato l’abuso, non sia in realtà l’autore materiale dello stesso. L’ordine di demolizione e riduzione in pristino dello stato dei luoghi è un atto di tipo ripristinatorio, che è rivolto nei confronti di chi è in un rapporto con la res tale da assicurare l’eliminazione delle conseguenze dell’abuso tramite la rimozione delle opere realizzate. 
 
Nel caso di specie, il proprietario non aveva partecipato alla realizzazione dell’abuso ma è venuto meno ai suoi obblighi di vigilanza e controllo sull’immobile locato, sorti con la stipulazione del contratto determinandone la sua responsabilità.  

 

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

 

In applicazione dell’art. 1757 c.c., se il contratto di locazione è sottoposto a condizione sospensiva, il diritto al compenso del mediatore è subordinato al verificarsi della condizione.

Il fatto

Tra un locatore ed un conduttore si è perfezionato un contratto di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo, sospensivamente condizionato al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative per l’esercizio dell’attività di pub.

Alla sottoscrizione del contratto, l’agenzia immobiliare ha incassato, da un lato, una somma a titolo di deposito cauzionale, da consegnare al locatore e, dall’altro lato, una somma a titolo di provvigione.

La condizione non si è realizzata, non essendo state rilasciate le predette autorizzazioni dall’amministrazione competente.

Il conduttore, quindi, ha chiesto giudizialmente all’agenzia la restituzione sia del deposito cauzionale, sia della provvigione.

All’esito della causa, i giudici di merito, sia in primo sia in secondo grado, hanno condannato l’agenzia a riconsegnare l’importo ricevuto a titolo di provvigione, mentre hanno respinto la domanda relativa al deposito cauzionale.

Il conduttore, allora, ha promosso ricorso per cassazione per ottenere il pagamento anche di quest’ultima somma, ritenendo che, essendo il contratto sottoposto a condizione sospensiva, l’agenzia avrebbe dovuto trattenere l’assegno consegnatole a titolo di deposito – e quindi non consegnarlo al locatore – fino all’avverarsi della condizione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 20192, pubblicata il 25 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.

L’agenzia non ha alcun obbligo di restituzione del deposito cauzionale verso i convenuti perché, essendosi comunque perfezionato il contratto di locazione, seppur condizionato, la stessa non ha avrebbe avuto alcun obbligo di trattenere presso di sé il deposito cauzionale.

Pertanto, la richiesta di pagamento avrebbe dovuto essere proposta nei confronti del locatore.

Correttamente, invece, è stato deciso in merito alla provvigione spettante all’agenzia, in applicazione dell’art. 1757 c.c..

Cass_20192_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

In tema di imposta di registro, l’agevolazione cd. prima casa è subordinata alla dichiarazione del contribuente, nell’atto di acquisto, di svolgere la propria attività lavorativa nel comune dove è ubicato l’immobile (requisito alternativo a quello del trasferimento della residenza anagrafica nello stesso entro diciotto mesi), poiché le agevolazioni sono generalmente condizionate ad una dichiarazione di volontà dell’avente diritto di avvalersene e, peraltro, l’Amministrazione finanziaria deve poter verificare la sussistenza dei presupposti del beneficio provvisoriamente riconosciuto.

Il fatto

Due contribuenti hanno acquistato un immobile nel Comune un cui uno di essi svolgeva la propria attività lavorativa.

Nell’atto di compravendita, gli stessi hanno dichiarato, al fine di usufruire delle agevolazioni “prima casa”, di impegnarsi a stabilire la residenza nel comune di ubicazione dell’immobile nel termine di diciotto mesi dall’acquisto.

Gli stessi, tuttavia, non hanno mai stabilito in quel luogo la loro residenza.

L’Agenzia delle Entrate, allora, ha notificato ai contribuenti un avviso di liquidazione di maggiore imposta IVA a seguito della revoca dei benefici fiscali della prima casa.

Gli acquirenti, allora, hanno promosso ricorso dinanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale, in quanto l’agevolazione sarebbe loro spettata comunque per la sussistenza di una delle condizioni previste dalla legge, cioè l’ubicazione dell’immobile nel Comune dove gli acquirenti esercitano la propria attività lavorativa.

Non essendo stato accolto il ricorso, i contribuenti hanno promosso appello dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale, la quale ha dato loro ragione.

L’Agenzia delle Entrate ha, allora, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 17200, pubblicata il 26/06/2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, confermando dunque l’avviso di liquidazione della maggiore imposta notificato.

Nel caso in esame, i contribuenti hanno indicato in sede di rogito notarile, quale esclusivo presupposto per usufruire dell’agevolazione prima casa, l’assunzione dell’obbligo di trasferimento della residenza nel termine di legge, senza far menzione alcuna del requisito alternativo del luogo lavorativo.

Pertanto, in assenza di formale richiesta da parte del contribuente, nell’atto di acquisto, dell’agevolazione fiscale in base a quest’ultimo requisito, è ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione con il quale l’amministrazione finanziaria ha rilevato il mancato tempestivo trasferimento della residenza anagrafica annunciato.

Cass_17200_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La denuncia ai sensi dell’articolo 59 D. Lgs. 42/2004 è finalizzata a consentire l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato per una finalità pubblicistica.

L’ente pubblico deve considerare sia il bene immobile in quanto tale e la potenziale funzionalità ad uno scopo istituzionale, sia il prezzo della cessione.

L’obbligo di pubblicazione grava sull’alienante.

L’atto stipulato in assenza della dovuta denuncia allo Stato per l’eventuale esercizio del diritto di prelazione è inefficace nei confronti del prelazionario.

Il fatto

Un signore ha formulato una proposta di acquisto per un appartamento, che è stata poi accettata.

Il notaio incaricato a redigere il contratto preliminare ha, però, rilevato come non risultassero notificati allo Stato gli atti di provenienza.

In sede di preliminare, la venditrice ha assunto l’obbligo di effettuare ogni verifica e conseguente adempimento, a fronte della corresponsione dell’importo richiesto.

Non avendo, tuttavia, la venditrice correttamente adempiuto alla propria obbligazione, l’acquirente ha proposto di attivare la procedura di verifica dell’interesse culturale della Pubblica Amministrazione. Tale proposta non è stata, però, accolta dal venditore.

Il primo, allora, ha dichiarato il recesso dal contratto preliminare, richiedendo la restituzione del doppio della caparra.

La pronuncia

Il Tribunale di Ferrara, con sentenza depositata il 18 aprile 2019, ha accertato il legittimo esercizio del diritto di recesso da parte dell’acquirente e ha condannato il venditore alla restituzione del doppio della caparra.

Non è risultato sufficiente, infatti, l’invio alla Sovraintendenza da parte del venditore della dichiarazione di successione, con la quale si è attestato di aver ricevuto l’immobile mortis causa.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il Notaio incorre in responsabilità professionale qualora non adempia correttamente la propria prestazione.

La dovuta diligenza non si espleta solo nella redazione dell’atto richiesto dalle parti, ma comprende anche le cd. attività preparatorie.

La responsabilità è, però, da escludere qualora tutte le parti che procedono alla stipula lo abbiano espressamente esonerato da tale attività.

Il fatto

Un signore ha acquistato un immobile con scrittura privata autenticata da un Notaio.

In seguito, si è scoperto che sul bene gravava un’ipoteca giudiziale.

L’acquirente ha, dunque, dovuto corrispondere una somma ulteriore rispetto al prezzo pattuito originariamente per liberare gli immobili.

Lo stesso ha, poi, citato in giudizio il Notaio chiedendo il risarcimento dei danni patiti.

Dapprima, il Tribunale di Roma e, in secondo grado, la Corte d’Appello capitolina hanno rigettato la domanda del compratore, rilevando che nel contratto di compravendita si è espressamente esonerato il Pubblico Ufficiale ad eseguire le verifiche ipotecarie e catastali.

Il soccombente ha, allora, promosso ricorso per cassazione, in quanto il professionista non avrebbe provato di aver diligentemente adempiuto al mandato professionale.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14169, pubblicata il 24 maggio 2019, ha respinto il ricorso perché inammissibile e privo di fondamento.

Nel caso di specie, infatti, le parti hanno esplicitamente esonerato il Notaio dall’onere di compiere le dovute visure ipotecarie e catastali, per ragioni di urgenza.

Non è stato, inoltre, dimostrato che il professionista fosse già a conoscenza dell’esistenza di formalità pregiudizievoli e che avesse comunque percepito un compenso per tale attività.

Non sono integrati, pertanto, i presupposti legittimanti la responsabilità professionale dello stesso.

Cass_14169_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31462, depositata in data 5 Dicembre 2018, ha ritenuto che l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, senza previa delibera assembleare in senso favorevole, è legittima ai sensi dell’art. 1102 c.c.

Il fatto

I condomini non interessati all’installazione di un ascensore all’interno dello spazio comune di un condominio chiedevano ne venisse dichiarata l’illegittimità oltre al ripristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Ascoli Piceno rigettava tutte le domande e la Corte D’Appello di Ancona, pronunciandosi sul gravame proposto dagli attori di I grado, confermava la sentenza.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della Corte qualora un esborso relativo ad innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche sia stato assunto interamente a carico di un condomino, trova applicazione la norma di cui all’art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune – purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto – e può apportare alla stessa a proprie spese le modificazioni necessarie a consentirne il migliore godimento.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha confermato la decisione in appello che aveva ritenuto l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, eseguita dai convenuti in primo grado a loro spese, legittima ex art. 1102 c.c., non ricorrendo una limitazione della proprietà degli altri condomini incompatibile con la realizzazione del manufatto, che è da ritenersi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento.  

Sent. n. 31462_2018 ascensore in condominio

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

La sezione VI del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1480/2019, depositata in data 4 Marzo 2019, ha ritenuto che la realizzazione di una tettoia a servizio di un edificio sia sottratta al rilascio di un permesso di costruire qualora abbia finalità di mero arredo e di protezione dell’immobile cui accede ma non ne alteri la sua sagoma.

Il fatto

Il Tar Lazio, sezione Latina, rigettava il ricorso presentato da una signora che aveva impugnato l’ordinanza di demolizione di una tettoia prefabbricata in metallo con tamponatura bilaterale asservita all’esercizio di un’attività commerciale.

La signora proponeva appello avverso la sentenza del TAR ritenendo si trattasse di una mera pertinenza in senso urbanistico.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione, “il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio; l’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo dell’immobile cui accedono”.

Nel caso di specie la tettoia costruita, tamponata lateralmente, era di dimensioni tali da aver innovato il manufatto preesistente da un punto di vista morfologico e funzionale, con un’evidente variazione planivolumetrica ed architettonica che rendeva necessario il rilascio del permesso di costruire per l’installazione della tettoia.  

Consiglio di Stato, sez. VI, 4 marzo 2019 tettoia

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

Il locatore, in caso di anormale usura dell’immobile, ha diritto al risarcimento del danno consistente sia nella somma di denaro occorrente per la riparazione dell’immobile medesimo, sia nel mancato guadagno ritraibile dalla cosa nel periodo di tempo necessario per l’esecuzione dei lavori.

Il fatto

I proprietari di un immobile concesso in locazione ad un ente pubblico hanno proposto ricorso per consulenza tecnica preventiva, con l’obiettivo di accertare l’entità dei danni arrecati all’immobile dalla p.a., nonché individuare e quantificare le opere necessarie per ripristinare lo stato dei luoghi.

All’esito della successiva causa di merito, il Tribunale di Catanzaro ha preso atto dell’esistenza di detti gravi danni e, di conseguenza, ha condannato il conduttore al risarcimento dei danni, oltre al pagamento di una indennità commisurata al periodo di tempo occorrente ai proprietari per il restauro dell’immobile.

La Corte d’Appello della medesima città, in accoglimento dell’impugnazione proposta dall’ente, ha invece ritenuto che nessun risarcimento o indennità spettasse ai proprietari a titolo di ristoro della perduta possibilità di locare l’immobile a terzi durante il periodo occorrente per il restauro.

I locatori hanno, quindi, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che nell’ipotesi in cui il conduttore restituisca l’immobile in condizioni tali da chiedere un restauro, il danno sarebbe in re ipsa.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 6596, pubblicata il 7 marzo 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dei proprietari perché fondato.

In primis, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “qualora, in violazione dell’art. 1590 c.c., al momento della riconsegna dell’immobile locato presenti danni eccedenti il degrado dovuto a normale uso dello stesso, incombe al conduttore l’obbligo di risarcire tali danni, consistenti non solo nel costo delle opere necessarie per la rimessione in pristino, ma anche nel canone altrimenti dovuto per tutto il periodo necessario per l’esecuzione ed il completamento di tali lavori, senza che, a quest’ultimo riguardo, il locatore sia tenuto a provare anche di aver ricevuto – da parte di terzi – richieste per la locazione, non soddisfatte a causa dei lavori“.

In secondo luogo, si è precisato come il risarcimento dovuto al locatore in conseguenza della mancata disponibilità del bene durante il periodo occorrente per il restauro non costituisca un danno in re ipsa. L’indisponibilità è invece equiparata alla mancata restituzione dell’immobile. Ne consegue che è, in ogni caso, dovuto per questo periodo al proprietario il corrispettivo convenuto in sede di contratto, salva la prova del maggior danno.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 5794, pubblicata il 28 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha delineato la nullità del contratto di locazione stipulato verbalmente e ha riconosciuto il diritto dell’inquilino ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate al proprietario di casa.

Il fatto

Il proprietario di un appartamento lo ha affittato per il periodo dal marzo 2011 all’agosto 2012 al canone di 900 euro mensili, senza tuttavia registrare alcun contratto.

Nel marzo 2012, tuttavia, su richiesta dell’inquilino, il locatore ha registrato un contratto di locazione nel quale è previsto un canone inferiore a quello effettivamente corrisposto, pari a 400 euro mensili.

Il conduttore, allora, lo ha convenuto in giudizio chiedendo la restituzione delle somme indebitamente pagate, corrispondenti ad euro 500 mensili per tutta la durata del contratto.

Sia il Tribunale di Lucca, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Firenze, in secondo, hanno però rigettato la domanda. Secondo i giudici del merito, il contratto di locazione intercorso tra le parti non è ascrivibile alla categoria “contratti non registrati nel termine stabilito dalla legge”, essendovi prova che il contratto del marzo 2012 è stato registrato subito dopo la stipulazione.

L’inquilino ha promosso ricorso per cassazione in quanto il contratto stipulato prima del marzo 2012 sarebbe nullo per mancanza di forma scritta.

La pronuncia

La Cassazione ha accolto il ricorso ritenendolo fondato.

Come noto, la sentenza delle Sezioni Unite n. 18214/2015 ha affermato che i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati senza la forma scritta sono affetti da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, eccezion fatta per l’ipotesi in cui la forma verbale sia abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso la nullità (cd. di protezione) è rilevabile dal solo conduttore.

Nel caso, dunque, di contratto a forma verbale liberamente concordata tra locatore e conduttore trovano applicazione i principi generali in tema di nullità.

Di conseguenza, se da un lato il locatore può agire in giudizio per il rilascio dell’immobile occupato senza alcun titolo, dall’altro il conduttore può ottenere la parziale restituzione delle somme versate a titolo di canone in misura eccedente a quanto concordato.

Nella fattispecie concreta, i giudici di merito hanno erroneamente escluso la ripetizione di quanto pagato in più dal conduttore, facendo riferimento a quanto concordato tra le parti anziché al canone concordato dalle associazioni di categoria.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.