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Il T.A.R. Toscana, con la sentenza n. 684, depositata in data 8 maggio 2019, ha stabilito che il reimpianto di un nuovo vigneto va qualificato come movimento di terra pertinente ad attività agricola non vincolato al rilascio di un titolo abilitativo, qualora ciò non comporti un’alterazione permanente dello stato dei luoghi.

Il fatto

La ricorrente impugnava il provvedimento del Comune di Carmignano che richiedeva il permesso di costruire per l’esecuzione di interventi di sbancamento di notevole entità su un terreno agricolo, lavori che erano tali da alterare la morfologia del terreno in modo irreversibile.

Il Comune si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.

La pronuncia

Il TAR Toscana, richiamandosi ad un precedente giurisprudenziale del TAR Veneto 2015, ha affermato che il reimpianto di un nuovo vigneto in sostituzione di quello precedente rimasto improduttivo va qualificato come movimento di terra pertinente ad attività agricola e non soggetto al previo rilascio di autorizzazione paesaggistica o titolo edilizio, a condizione che non venga alterato in modo permanente lo stato dei luoghi.

Nel caso di specie lo sbancamento del terreno effettuato dalla società ricorrente per il reimpianto del nuovo vigneto non altera la morfologia del terreno in modo irreversibile, essendo strettamente pertinente all’esercizio dell’attività agricola e pertanto non necessita del rilascio del titolo autorizzativo.

TAR Toscana 684_2019 vigneto

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

Con la sentenza n. 22228/2019, depositata il 22 maggio 2019, la Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, ha annullato con rinvio la sentenza del Tribunale di Massa, limitatamente al punto concernente la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente.

Il fatto

L’evento risale al 2017, quando un uomo, in sella alla propria bicicletta elettrica, ha provocato un incidente.

Al momento dell’alcoltest, il soggetto, risultava guidare il velocipede con un tasso alcolemico pari a 2,98 grammi per litro.

Secondo il C.d.S., non può essere punito con la revoca della patente il ciclista che guida sotto l’effetto di alcolici.

Il Tribunale, al contrario, ha revocato la licenza di guida poichè la bicicletta era con pedalata assistita e, pertanto, necessaria la patente ai sensi del Reg. Europeo n. 168/2013.

La pronuncia 

Tale Reg. Europeo si applica solo ai mezzi con pedalata assistita con potenza superiore ai 250 watt (cicli a propulsione), muniti di targa; tutti gli altri sono considerati velocipedi.

Su questo assunto si basa il ricorso in Cassazione proposto dall’uomo che si è visto ritirare la patente di guida per la seconda volta.

La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza del Tribunale per un nuovo giudizio sul punto.

ritiro patente bici Sent cass pen

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Il TAR BRESCIA, sezione II, con la sentenza n. 426, depositata in data 2 Maggio 2019, ha stabilito che l’amministrazione è obbligata a restituire al privato le somme da lui corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, qualora lo stesso rinunci o non utilizzi il permesso di costruire rilasciato.

Il fatto

La ricorrente pagava al Comune gli importi dovuti a seguito del rilascio del Permesso di Costruire per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.

La stessa poi rinunciava ad eseguire i lavori autorizzati dal titolo e presentava richiesta di rimborso degli oneri corrisposti, senza ottenere alcun riscontro dal Comune, che pertanto veniva convenuto in giudizio.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della Sezione il contributo concessorio è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio, pertanto qualora ciò non si verifichi il relativo pagamento è privo della causa dell’originaria obbligazione di dare e il privato ha diritto alla restituzione di quanto versato per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.

Il diritto alla restituzione sorge sia nel caso che la mancata realizzazione delle opere sia totale, sia quando il permesso di costruire sia stato utilizzato parzialmente.

Nel caso di specie la società ha rinunciato all’esecuzione delle opere autorizzate e per tale motivo non ha comunicato l’inizio dei lavori, presentando una richiesta di rimborso degli oneri corrisposti all’amministrazione competente.

Il TAR ha accolto il ricorso e condannato il Comune alla restituzione degli importi dovuti a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione. 

sent. n. 274_Tar Brescia 2019 oneri urbanizzazione  

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

Il Tribunale di Udine, con sentenza 1242/2018, in una controversia opponente un appaltatore e una pubblica amministrazione appaltatrice in materia di esecuzione di un appalto pubblico, si è espresso sul lanoso problema della giurisdizione.

Il fatto

È noto, infatti, che a più riprese sia posta la necessità di comprendere dove debba essere individuato lo spartiacque tra la giurisdizione del giudice ordinario e la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai contratti d’appalto e concessione pubblici.

Spesso la giurisprudenza ha posto tale confine individuando il momento fondativo della giurisdizione ordinaria nella stipula del contratto e, pertanto, in una fase a valle delle operazioni di gara.

Il caso di specie era, tuttavia, particolare giacché il contratto non era mai stato sottoscritto.

La pronuncia

Il Tribunale ha fissato tale regula iuris: in materia di appalti di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sole controversie relative alle procedure di affidamento dei lavori, che si concludono con l’aggiudicazione.

Ogni controversia derivante dall’esecuzione del contratto nascente da condotte ascrivibili alla P.A. o alla parte privata, nella fase di espletamento del servizio oggetto della procedura d’evidenza pubblica, seppur precedente la stipulazione del contratto, è devoluta alla giurisdizione ordinaria.

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

Il TAR Toscana, con la sentenza n. 507, depositata in data 05 aprile 2019, ha affermato che non esiste un’incompatibilità assoluta tra la destinazione agricola di un’area e la sua utilizzazione a parcheggio, perché tale destinazione non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva di tale area, salvo non ci siano particolari prescrizioni di carattere ambientale/paesaggistico.

Il fatto

I ricorrenti impugnavano l’ordinanza del Comune di Empoli che disponeva la demolizione di alcune opere, tra cui aree di parcheggio realizzate in area a destinazione agricola in assenza del permesso di costruire o in difformità dallo stesso.

Nei motivi aggiunti i ricorrenti contestavano il diniego di sanatoria rilevando che non si trattava di trasformazione permanente di terreno edificato e che, l’art. 78 RUC, ammetteva la “manutenzione degli esistenti elementi viari e spazi di sosta per i mezzi di trasporto motorizzato”.

Il Comune resisteva in giudizio anche ai motivi aggiunti.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione non sussiste un’incompatibilità assoluta tra la destinazione agricola di un’area e la sua utilizzazione a parcheggio, perché la destinazione a zona agricola di un’area avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali, non costituisce ostacolo all’installazione di opere che non riguardino l’edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone densamente abitate.

Nel caso di specie non risulta provato che vi sia stata una rilevante e significativa modificazione dei luoghi, con opere che possano essere considerate incompatibili con la destinazione stessa e pertanto un’area a destinazione agricola può essere utilizzata come parcheggio.

TAR Toscana n. 507_2019 parcheggi

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nell’ordinanza 11129/19, depositata il 19 aprile, ha affermato che al momento del decesso dell’ex coniuge, il superstite ha diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, o una quota di essa, solo se è titolare di un assegno divorzile.

Il fatto

Una donna, rimasta vedova, ha fatto domanda per vedersi riconosciuta la pensione di reversibilità del marito dal quale aveva divorziato.

L’assegno divorzile deve essere riconosciuto dal Tribunale con sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il Tribunale ha respinto la domanda sul rilievo che l’assegno stabilito in sede di separazione, di natura alimentare e fondato sul presupposto della permanenza del vincolo coniugale, non poteva continuare una volta dichiarata la cessazione degli effetti del matrimonio.

La Corte territoriale ha confermato quanto statuito dal Tribunale.

La pronuncia 

I motivi di impugnazione che sono stati sollevati dalla donna sono stati ritenuti infondati dalla Suprema Corte di Cassazione.

La Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla donna e ha condannato la stessa al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del contro ricorrente.

nessuna pensione di reversibilità se no titolari di assegno di divorzio

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Il TAR Lazio, Latina sezione I, con la sentenza n. 255, depositata in data 5 Aprile 2019, ha ritenuto che il manufatto realizzato per il ricovero di una caldaia va qualificato come vano tecnico e pertanto sottratto all’obbligo della previa acquisizione del permesso di costruire, tenuto conto della sua destinazione e delle dimensioni minime.

Il fatto

Il Comune di Alatri ordinava la demolizione di un “manufatto con struttura in alluminio fissato in terra di forma rettangolare con sovrastante copertura con la messa in opera all’interno di una caldaia a pellet e con la messa in opera di una canna fumaria esterna realizzata per tutta l’altezza del fabbricato della dimensione di mt 1,60 x 0,85 per alt. 2,40 e mc 3,40”.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione deve ritenersi esclusa dal regime di applicabilità dell’art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 la copertura metallica posta a protezione della caldaia, che ha le caratteristiche di un volume tecnico, per cui il manufatto deve avere un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo dell’abitazione principale e di proporzionalità tra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti; inoltre, tali opere non devono poter essere ubicate all’interno dell’abitazione.

La nozione di volume tecnico riguarda solamente le opere edilizie prive di una propria autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto finalizzate a contenere impianti serventi una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa.

Nel caso di specie la copertura realizzata ha dimensioni ridotte (meno del 2% della cubatura dell’immobile) e la sua unica funzione è di protezione della caldaia posta al suo interno e a servizio dell’abitazione principale.    

Sentenza TAR Lazio, sez. Latina, n. 255_2019

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

La Seconda sezione civile, della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 8277/2019, depositata in data 25 marzo 2019, ha cassato la sentenza della Corte territoriale precisando che deve verificare la soglia di tollerabilità delle immissioni di alcuni pali dell’alta tensione installati, da parte di una Società, nella parte retrostante di due appartamenti in condominio. 

Il fatto

I proprietari degli appartamenti in condominio hanno sostenuto che durante una notte, degli operai di una Società confinante con il rispettivo fabbricato, hanno installato dei pali dell’alta tensione.

A detta dei proprietari, tali installazioni abusive, emettevano radiazioni lesive per la salute, chiedendo la condanna alla rimozione e al risarcimento danni.

Il Tribunale prima e la Corte d’appello poi, hanno accolto le domande dei ricorrenti condannando la Società. 

La pronuncia 

I giudici dell’appello, hanno applicato il principio di precauzione sostenendo che, anche se non vi sono prove che statuiscono il nesso di causalità, il danno alla salute si reputa presunto anche se la scienza medica non ha riscontrato effetti negativi con l’esposizione dell’uomo ai campi elettromagnetici.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza a diversa composizione della Corte d’appello, non avvallando la decisione dei giudici del secondo grado.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Sezione Sesta, della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 9937/2019, depositata in data 09 aprile 2019, ha deciso che, gli sposi che hanno sottoscritto un contratto di banqueting con il proprietario di una villa per il loro matrimonio e decidono di cambiare la location, devono risarcire il proprietario.

Il fatto

Il Tribunale ha dato ragione al proprietario del ristorante dedicato alla celebrazione dei matrimoni, il quale nel contratto di banqueting ha inserito una clausula in caso di recesso da parte degli sposi.

Tale clausula prevedeva il pagamento di una penale nel caso in cui gli sposi avrebbero deciso di cambiare location.

Di tale avviso è stata anche la Corte territoriole, che ha escluso la riconducibilità della clausula nell’alveo delle vessatorie, precisando che, il consenso, è derivato da una contrattazione tra le parti.

La pronuncia 

La Cassazione ha respinto il ricorso promosso dagli sposi, precisando che non vi è alcuna vessatorietà nella clausula prevista dal contratto.

Specifica che è: «una consensuale previsione di una specifica facoltà assicurata al cliente dietro pagamento di un corrispettivo, variamente determinato in funzione dell’epoca dell’eventuale recesso».

In conclusione, tale pattuizione è derivata dalla volontà di entrambe le parti al momento della conclusione del contratto.

Contratto di banqueting sposi devono risarcire

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31462, depositata in data 5 Dicembre 2018, ha ritenuto che l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, senza previa delibera assembleare in senso favorevole, è legittima ai sensi dell’art. 1102 c.c.

Il fatto

I condomini non interessati all’installazione di un ascensore all’interno dello spazio comune di un condominio chiedevano ne venisse dichiarata l’illegittimità oltre al ripristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Ascoli Piceno rigettava tutte le domande e la Corte D’Appello di Ancona, pronunciandosi sul gravame proposto dagli attori di I grado, confermava la sentenza.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della Corte qualora un esborso relativo ad innovazioni volte all’eliminazione delle barriere architettoniche sia stato assunto interamente a carico di un condomino, trova applicazione la norma di cui all’art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune – purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto – e può apportare alla stessa a proprie spese le modificazioni necessarie a consentirne il migliore godimento.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha confermato la decisione in appello che aveva ritenuto l’installazione di un ascensore sulle parti comuni, eseguita dai convenuti in primo grado a loro spese, legittima ex art. 1102 c.c., non ricorrendo una limitazione della proprietà degli altri condomini incompatibile con la realizzazione del manufatto, che è da ritenersi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento.  

Sent. n. 31462_2018 ascensore in condominio

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.