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Per poter fruire dei benefici “prima casa”, l’acquirente deve poter dichiarare, nell’atto di acquisto, di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l’immobile da acquistare.

Il fatto

Un soggetto è proprietario di due immobili siti nel medesimo Comune.

Il primo, nel quale vive, è stato acquistato con le agevolazioni “prima casa”.

Il secondo, che è invece concesso in locazione, è stato acquistato senza fruire di queste agevolazioni fiscali.

Egli decide di vendere la propria abitazione e di comprarne un’altra, sempre nel medesimo Comune.

A suo parere, quest’ultima può essere acquistata fruendo nuovamente delle agevolazioni “prima casa”.

Infatti, la recentissima giurisprudenza della Cassazione sostiene che dette agevolazioni debbano essere estese anche a chi è proprietario di un immobile già concesso in locazione, sito nel medesimo luogo, in quanto sottoposto ad un vincolo giuridico che rende tale alloggio giuridicamente inidoneo ad essere abitato.

La pronuncia

L’Agenzia delle Entrate è, però, di parere contrario rispetto a quello della Suprema Corte.

Per poter fruire di queste agevolazioni fiscali, la normativa impone il rispetto di tre condizioni:

  1. che l’immobile sia ubicato nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca la propria residenza entro 18 mesi dall’acquisto;
  2. che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, ad alcun titolo, di altra casa situata nello stesso Comune in cui è situato l’immobile da acquistare;
  3. che nell’atto di acquisto l’acquirente dichiari di non essere titolare, ad alcun titolo, di altro immobile nel territorio nazionale acquistato con la medesima agevolazione.

È necessario, pertanto, che il secondo immobile eventualmente posseduto sia assolutamente inidoneo all’uso abitativo.

L’indisponibilità giuridica dovuta al contratto di locazione, tuttavia, non corrisponde a tale concetto di inidoneità.

Di conseguenza, l’agevolazione prima casa non può essere applicata al caso di specie.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13354, depositata in data 26 maggio 2017, ha affermato che il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne da parte del genitore obbligato cessa quando il figlio ha raggiunto l’autosufficienza economica, anche qualora svolga attività lavorativa con contratti a termine e guadagni contenuti.  

Il fatto

Il Tribunale di Civitavecchia disponeva in favore dei figli un contributo paterno per il loro mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale, nella quale convivevano con la madre. Il padre, obbligato al versamento del relativo assegno, proponeva appello chiedendo la revoca dell’assegno di mantenimento dei figli perché maggiorenni e autosufficienti economicamente. La Corte D’Appello di Roma revocava il contributo paterno a decorrere dall’anno in cui figli hanno iniziato a svolgere regolare attività lavorativa. Il padre ricorreva in Cassazione per vedersi restituire le somme finora versate a titolo di mantenimento. I figli resistevano con controricorso e proponevano ricorso incidentale.

La pronuncia

La Cassazione ha statuito che i figli maggiorenni che svolgono regolare attività lavorativa, seppur con contratti a termine e con guadagni contenuti, sono economicamente autosufficienti e pertanto non è più dovuto loro l’assegno di mantenimento.
 
Nel caso di specie, i figli fino al 2010 non svolgevano un’attività lavorativa stabile, in particolare uno di loro era titolare di un contratto di apprendistato. A decorrere da quella data i figli hanno cominciato a lavorare con contratti a termine e con guadagni contenuti, con la conseguenza che è stato a loro revocato sia l’assegno di mantenimento, che l’assegnazione della casa coniugale.  
sentenza n. 13354_2017

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

 

In tema di appalto, il principio per cui il giudice può qualificare la domanda proposta ricollegandola all’art. 1669 c.c., invece che considerarla quale richiesta di adempimento contrattuale ex art. 1667 c.c., è volto al rafforzamento della tutela del committente.

Il fatto

Un’impresa edile ha ottenuto l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti di un proprio cliente per ottenere il pagamento di alcuni lavori di ristrutturazione.

Il committente delle opere ha proposto l’opposizione al medesimo decreto, in quanto avrebbe subito pregiudizi nel corso dell’esecuzione delle stesse che gli avrebbero arrecato dei danni.

Il Tribunale di Saluzzo, in primo grado, ha revocato il decreto ingiuntivo e condannato l’impresa al risarcimento di questi ultimi.

La Corte d’Appello di Torino ha, però, riformato la sentenza, non riconoscendo al committente alcun diritto al ristoro dei pregiudizi.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, in quanto i giudici di merito avrebbero errato a sussumere la fattispecie tra i vizi di cui all’art. 1667 c.c., anziché in quelli ex art. 1669 c.c..

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 20184, pubblicata il 25 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso.

Nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, infatti, il giudice non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo piuttosto tener conto del contenuto sostanziale della pretesa.

In materia di appalto, la garanzia ex art. 1669 c.c. si configura come sottospecie di quella ex art. 1667 c.c., perché i gravi difetti dell’opera si traducono inevitabilmente in vizi della stessa.

La presenza di elementi costitutivi della prima, allora, implica necessariamente la sussistenza della seconda.

Pertanto, non sussiste incompatibilità tra gli artt. 1667 e 1669 c.c..

Cass_20184_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Nel caso di acquisto di un bene immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente è condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione.

Oltre al concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, occorre l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione della comunione elencate all’art. 179, co. 1, lett. c), d) ed f), c.c..

Il fatto

Due coniugi hanno contratto matrimonio nel 1970.

Nel 1988, la moglie ha acquistato un immobile con denaro personale, prevedendo nell’atto di acquisto che fosse escluso dalla comunione legale.

Nel 2006 è stato dichiarato il fallimento del marito, quale socio unico illimitatamente responsabile di una società in nome collettivo.

Il curatore del fallimento ha trascritto la sentenza di fallimento sull’immobile detto in precedenza, sul presupposto che la partecipazione al contratto del coniuge (formalmente non acquirente) ed il suo assenso all’acquisto personale in favore dell’altro coniuge non fossero elementi sufficienti ad escludere l’acquisto dalla comunione legale.

La proprietaria dell’immobile ha allora citato in giudizio il curatore per ottenere la cancellazione della trascrizione della sentenza di fallimento.

Sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello di Napoli, hanno rigettato le richieste dell’attrice.

Quest’ultima ha, quindi, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 7027, pubblicata il 12 marzo 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, infatti, “mancando la prova della sussistenza di una delle cause di esclusione  dalla comunione legale di cui all’art. 179 c.c., lett. c), d) ed f), la mera partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di trasferimento e la sua dichiarazione circa la natura dei beni  non comport[a] l’esclusione dei beni medesimi, acquistati in regime di comunione legale, dalla comunione stessa“.

La domanda formulata dalla proprietaria dell’immobile, dunque, avrebbe dovuto essere volta ad accertare la sussistenza dei presupposti di fatto dell’esclusione dei beni dalla comunione, non essendo all’uopo sufficiente la mera dichiarazione contenuta nell’atto di vendita.

Cass_7027_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il più recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità esclude l’applicabilità della nullità assoluta per violazione della normativa in materia edilizia ai contratti preliminari ed ai contratti obbligatori in genere.

Il fatto

Il promissario acquirente ed il proprietario di un immobile hanno sottoscritto un contratto preliminare di compravendita.

A fronte dell’inerzia del secondo nella sottoscrizione del contratto definitivo, il compratore ha citato in giudizio il venditore per ottenere, in via principale, l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di stipulare l’atto traslativo e, in via subordinata, la risoluzione per inadempimento, con condanna alla restituzione del doppio della caparra.

Il Tribunale di Bari ha rigettato le domande formulate.

Sull’impugnazione proposta dal promissario acquirente, la Corte d’Appello di Bari ha accolto le sue ragioni e ha dichiarato la risoluzione del preliminare per nullità assoluta derivante dalla contrarietà a norme imperative, essendo l’immobile privo di concessione edilizia ed edificato in violazione dello strumento urbanistico vigente.

Il proprietario dell’immobile ha dunque promosso ricorso per cassazione, perché detta nullità si riferirebbe solamente agli atti di trasferimento della proprietà ad efficacia reale e non ai contratti preliminari.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 6685, pubblicata il 7 marzo 2019, gli Ermellini hanno rilevato sul punto due orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo il primo, la nullità per violazione della normativa in materia edilizia sarebbe estendibile anche ai contratti preliminari (v. Cass. 23591/13 e Cass. 28194/13).

Secondo l’altro, preferibile perché maggioritario e più recente, la sanzione della nullità, con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili privi della necessaria concessione edificatoria, sarebbe applicabile nei soli contratti con effetti traslativi (ex multis, Cass. 11659/18 e Cass. 21942/17).

La Corte adita ha confermato quest’ultimo indirizzo, affermando che detta nullità non è estensibile ai contratti con efficacia obbligatoria, quali i preliminari, perché in ogni caso la sanatoria degli abusi edilizi commessi potrebbe intervenire prima della sottoscrizione del contratto definitivo.

Cass_6685_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 738, pubblicata il 23 ottobre 2018, la Prima Sezione Civile del Tribunale di Massa ha definito il concetto di lesione del decoro architettonico conseguente alla realizzazione di opere sulle parti in proprietà esclusiva di un condominio.

Il fatto

Il proprietario dell’appartamento posto all’ultimo piano di uno stabile condominiale ha eseguito alcune opere presso la sua abitazione.

Tra queste, ha chiuso il lastrico solare di proprietà esclusiva, ha modificato tutti i parapetto dell’attico, ha aperto una seconda porta d’accesso all’appartamento, ha chiuso alcune finestre del piano casa condominiale e ha demolito la canna fumaria comune.

Gli altri condomini, dunque, lo hanno citato in giudizio per far accertare l’illiceità delle opere realizzate dallo stesso e sentirlo condannare a ripristinare lo stato dei luoghi, avendo le stesse modificato il prestigio del palazzo.

La pronuncia

Il Tribunale toscano ha, preliminarmente, ricostruito la nozione di decoro architettonico come delineata dalla Suprema Corte di Cassazione.

Esso riguarda l’estetica del fabbricato fornita dalle linee e dalle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell’edificio, ma non l’impatto dell’opera con l’ambiente circostante.

L’alterazione dello stesso, allora, deve valutarsi non solo con riferimento all’armonia di dette linee e strutture, ma anche alla modifica dell’originario aspetto di singoli elementi che abbiano una sostanziale autonomia, tale da causare significative ripercussioni pregiudizievoli nella valutazione economica delle singole unità immobiliari.

Il singolo condomino, che esegue opere sulle parti di proprietà esclusiva, altera dunque il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dell’edificio al momento dell’opera, modifica l’avvenenza dell’intero fabbricato, o di parti di esso, e reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dello stesso e delle unità immobiliari in esso comprese.

Nel caso in esame, all’esito dell’istruttoria svolta, il giudice ha ritenuto che le innovazioni realizzate dal condomino dell’ultimo piano non fossero tali da pregiudicare il decoro dell’intero edificio e, quindi, ha respinto tutte le domande proposte dagli attori.

Trib_Massa_738_2018

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.