Con l’ordinanza n. 26691/2018, depositata il 22 ottobre 2018, la Sesta Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che nel caso di furto all’interno dell’abitazione di un condomino, commesso con accesso dalle impalcature esterne installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, è configurabile la responsabilità del condominio per danno cagionato da cosa in custodia.

Il fatto

Il proprietario dell’appartamento ha citato in giudizio il condominio e l’impresa esecutrice delle opere di rifacimento dell’immobile, per ottenere una condanna nei loro confronti al risarcimento dei danni conseguenti al furto di alcuni oggetti preziosi e denaro sottratti ad opera di ignoti, i quali si sono introdotti in casa attraverso i ponteggi lasciati incustoditi dallo stesso appaltatore.

Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda dell’attore, condannando in solido i convenuti al pagamento della somma di circa € 28.000.

Il condominio ha appellato la sentenza del giudice di prime cure eccependo, in via preliminare, la propria carenza di legittimazione passiva sostanziale essendo l’impresa appaltatrice l’unica responsabile; nel merito, l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 2051 c.c. essendo il condominio custode solo delle cose di proprietà comune, non invece dei ponteggi; e, in via subordinata, l’insussistenza della propria responsabilità per aver sollecitato l’impresa ad intervenire.

La Corte d’Appello partenopea ha escluso la culpa in vigilando del condominio per aver sollecitato più volte l’appaltatrice a rimuovere il ponteggio, a fronte della sospensione dei lavori.

La pronuncia

La Suprema Corte si è pronunciata favorevolmente sulla configurabilità della responsabilità solidale del condominio con quella dell’impresa esecutrice dei lavori di ristrutturazione, sia per culpa in eligendo, sia per culpa in vigilando.

In particolare, nell’ipotesi di furto in appartamento condominiale, commesso con accesso dalle impalcature installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, sono individuabili due responsabilità.

Da un lato, quella dell’imprenditore ai sensi dell’art. 2043 c.c., per omessa ordinaria vigilanza nella adozione delle cautele atte ad impedire l’uso anomalo dei ponteggi.

Dall’altro, quella del condominio ai sensi dell’art. 2051 c.c., per l’omessa vigilanza e custodia della medesima impalcatura, cui è obbligato quale soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura.

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Cass_26691_2018

Con la ordinanza n. 1921/2019, depositata il 24 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, ha stabilito che se nel verbale di accertamento non sono indicati i controlli periodici degli apparecchi destinati all’alcoltest, procedure previste dal Ministero dei Trasporti, il suddetto verbale è illegittimo.

Il buon esito della cd. taratura obbligatoria annuale deve essere riportato sul libretto dell’etilometro, pena: l’impossibilità dell’utilizzo.

Il fatto

Nel caso di specie, Tizio è risultato positivo all’alcoltest e ha proposto ricorso dinnanzi al Giudice di Pace.

Lo stesso, dinnanzi il Tribunale di Roma, ha sostenuto la mancanza della taratura dell’alcoltest come previsto dalla legge, poiché, l’esito positivo, doveva essere inserito nel libretto dell’apparecchio.

Il giudice d’appello ha rigettato la doglianza, sostenendo che la prova contraria della legittimità del controllo doveva essere fornita dal contravventore.

Il ricorrente ha proposto ricorso per Cassazione.

La pronuncia

La Cassazione, in prima analisi, ha accolto il motivo proposto dal ricorrente.

Si afferma che l’onere di allegazione spetta all’opponente, e si applica l’onere della prova previsto dall’art. 2697 c.c..

Per tale motivo l’opponente, una volta sollevato il fatto, non ha l’onere di dover provare l’inesistenza dei fatti in oggetto, bensì l’obbligo si pone a carico della P.A..

La Corte ha abbracciato tale motivo di ricorso, affermando che non aderisce alla teoria del Tribunale di Roma.

Ogni etilometro deve avere un cd. libretto metrologico che identifica il tipo di apparecchio con le relative manutenzioni e controlli obbligatori per legge; quindi, il verbale di accertamento, deve contenere tutti i dati relativi agli adempimenti per garantire le operazioni di verifica.

La Pubblica Amministrazione, non v’è dubbio, deve assolvere tale onere della completa attività strumentale ai fini della legittimità dell’accertamento.

In conclusione, la P.A. ha violato il dettame dell’art. 2697 c.c., questione sollevata da Tizio, poiché avrebbe dovuto fornire la prova degli adempimenti summenzionati.

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alcoltest multa illegittima se no tarato etilometro ogni anno

Con la sentenza n. 4/2019, la Seconda Sezione Civile della Corte d’Appello di Brescia, ha riconosciuto come validamente effettuata la convocazione dell’assemblea di condominio avvenuta attraverso l’invio dell’avviso ad un indirizzo di posta elettronica non certificato.

Il fatto

Con sentenza n. 790/2016, il Tribunale di Brescia ha respinto in toto le richieste dell’attore e lo ha condannato al pagamento delle spese di giudizio.

Il soccombente ha, quindi, impugnato la predetta sentenza per violazione dell’art. 66 disp. att. c.c., in quanto il giudice di prime cure avrebbe errato nel ritenere che la convocazione sarebbe avvenuta correttamente con le modalità richieste dallo stesso attore/appellante, ossia via email.

L’avviso di convocazione, invece, avrebbe dovuto essergli comunicato a mezzo PEC.

La pronuncia

Per la Corte d’Appello di Brescia è corretto ritenere che la PEC sia l’unico strumento equipollente alla raccomandata, perché solo con tale modalità, pervenendo all’amministratore la ricevuta di consegna, si ha la prova della ricezione dell’avviso predetto.

Nel caso di specie, tuttavia, è stato lo stesso condomino a richiedere la comunicazione attraverso un mezzo “informale”, quale l’email.

Ne consegue che, avendo rispettato le forme indicate dal medesimo soggetto per la convocazione dell’assemblea condominiale, non risulta necessario l’invio dell’avviso alla PEC dello stesso.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la ordinanza n. 25134/2018, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, ha stabilito che se il figlio minore vive in un contesto agiato, il Giudice deve prendere in considerazione lo stile di vita tenuto durante la permanenza presso la casa familiare e le disponibilità economiche dei genitori; per tale motivo, non potrà essere utilizzato un criterio generale ed equitativo se il figlio ha vissuto in un ambiente particolarmente abbiente.

Il fatto

Il caso di specie, ha riguardato l’affidamento e il mantenimento di un figlio nato da due genitori non coniugati.

Nei primi due gradi di giudizio è stato confermato che il minore doveva essere affidato in modo condiviso ad entrambi i genitori e, la Corte d’appello di Brescia, ha precisato che la collocazione preminente del minore era presso la madre, gravando così sul padre, una maggiorazione dell’assegno di mantenimento, ricalcolato da euro 800,00 a Euro 1.500,00 mensili.

Il padre ricorre in Cassazione, portando all’attenzione due motivi: in primis, affermando che non è stato posto in essere alcun tipo di valutazione che riguarda lo stile di vita del minore, ed è stato aumentato, così, l’assegno di mantenimento, inoltre, senza fare nessuna analisi e/o raffronto sulla dichiarazione dei redditi della coniuge, ma sono state precisate, solo, le risorse economiche paterne.

In secundis, il Giudice, non ha garantito la bigenitorialità e la corretta applicazione delle norme sull’affido condiviso, poiché ha statuito che la collocazione del minore fosse stabilita presso la madre, non permettendo quanto previsto dagli artt. 147 e 148 del c.c., per cui: cura, educazione ed istruzione.

La pronuncia

La Cassazione, in prima analisi, ha accolto il motivo proposto dal ricorrente.

Gli stessi Ermellini, sostengono che la corte di Appello non abbia valutato i principi del caso in oggetto; hanno affermato che non sono state valutate le esigenze di un bambino di una famiglia agiata, facendo esclusivamente ricorso ad un mero principio equitativo per la determinazione dell’assegno di mantenimento.

Riguardo al secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha affermato che il fatto che il minore ha avuto il domicilio stabile presso il genitore con il quale ha vissuto prevalentemente, è stato ritenuto, ai fini della crescita, maggiormente preferibile stante la crisi che ha coinvolto il nucleo familiare.

In sostegno di tale ultimo punto, la Corte di Appello, ha svolto delle indagini peritali, perciò il provvedimento è stato ritenuto preciso e non lacunoso.

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sent mantenimento minore famiglia benestante

Con la recente ordinanza n. 966 del 16 gennaio 2019, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, nell’ambito dell’usucapione di beni ereditari, non sono necessari atti di interversione del possesso.

Il fatto

Alla morte del padre, un figlio ha citato in giudizio gli altri due fratelli per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria, con rendiconto.

Uno dei convenuti, costituitosi in giudizio, ha chiesto l’accertamento in via riconvenzionale dell’acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile nel quale ha vissuto fino ad allora.

La Corte d’Appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza, ha respinto detta domanda di acquisto della proprietà a titolo originario.

Il soccombente, pertanto, ha promosso il giudizio di legittimità ritenendo che la domanda di usucapione dei beni ereditari non richiedesse la sussistenza di alcun atto di interversione del possesso.

La pronuncia

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto infondato.

I giudici del Palazzaccio, pur accogliendo in punto di diritto la posizione del ricorrente, hanno ritenuto che “la Corte d’Appello non ha fondato la decisione sul rilievo che non vi fosse prova di atti di interversione del possesso – che non sono richiesti ai fini dell’usucapione di beni ereditari -, bensì sul rilievo che non fosse provato il possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di analogo rapporto“.

È stato quindi ribadito il principio, già affermato tra le altre da Cass. n. 10734/2018, secondo il quale il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso.

L’art. 714 c.c., infatti, non richiede alcun atto di interversione.

Al fine di usucapire un bene facente parte di un asse ereditario, allora, occorre ed è sufficiente estendere il possesso in termini di esclusività o ad excludendum: il coerede deve godere del bene con modi incompatibili con la possibilità di godimento altrui.

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Con la recente sentenza n. 1028 del 16 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito il principio (già espresso, da ultimo, in Cass. n. 11028/2016) secondo il quale per privare di valore probatorio un foglio firmato totalmente o parzialmente in bianco, è necessaria la querela di falso e non il semplice disconoscimento di scrittura privata.

Il fatto

Nell’ambito di una compravendita di un’autovettura, il rivenditore ha consegnato l’automobile all’acquirente, provvedendo anche ad effettuare il passaggio di proprietà, mentre quest’ultimo ha pagato il prezzo del bene ed ha consegnato una fotocopia della propria patente, sottoscrivendola e indicando il proprio numero di telefono.

In un secondo momento, il commerciante ha riportato su questo foglio, di suo pugno, alcune righe di testo per obbligare il compratore a pagare un prezzo superiore rispetto a quello pattuito. Poi lo ha citato in giudizio per ottenere il pagamento, per l’intero, dell’importo maggiorato.

Il cliente, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’avvenuto pagamento della minor somma realmente pattuita e ha disconosciuto, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., il contenuto della scrittura privata intercorsa tra le parti.

Il Tribunale e, poi, la Corte d’Appello di L’Aquila hanno accolto la domanda del concessionario, condannando l’acquirente alla corresponsione, per l’intero, dell’importo più elevato.

La pronuncia

Anche i giudici del Palazzaccio hanno dato ragione al venditore, in quanto il compratore ha errato nella scelta dello strumento processuale: anziché proporre il disconoscimento della scrittura privata, avrebbe dovuto proporre la querela di falso.

Sul documento in questione, infatti, vi è rappresentata la copia fotostatica della patente del cliente, la sua sottoscrizione ed il suo recapito telefonico, oltre al testo riportato dal venditore. L’acquirente non ha contestato l’autenticità della firma collocata in calce alla scrittura, riconoscendo come proprio anche il documento d’identità raffigurato, ma ha unicamente disconosciuto il contenuto dell’atto. In sostanza, ha negato formalmente che il testo del documento fosse scritto di suo pugno, ma ha confermato che la sottoscrizione fosse la sua.

Quest’ultima, tuttavia, ai sensi dell’art. 2702 c.c., “vale ad ingenerare una presunzione iuris tantum di consenso del sottoscrittore al contenuto dell’atto e di assunzione di paternità dello scritto indipendentemente dal fatto che la dichiarazione non sia stata vergata o redatta dal sottoscrittore“.

Pertanto, per contestare la verità del testo e superare la predetta presunzione, cioè per denunciare il riempimento abusivo di un foglio absque pactis, sarebbe stata necessaria la querela di falso, disciplinata dagli artt. 221 e seguenti c.p.c..

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Con la recente ordinanza n. 620 del 14 gennaio 2019, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che nel caso di condominio cd. minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno solo di essi è rimborsabile soltanto nell’ipotesi in cui abbia i requisiti dell’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c..

Il fatto

In un piccolo complesso condominiale, composto di due sole unità immobiliari, il proprietario dell’appartamento al piano terra ha eseguito, a proprie spese, lavori di manutenzione e riparazione di un cortile e di un viale d’accesso comuni alla propria abitazione ed all’appartamento sovrastante, di proprietà esclusiva di un altro condomino.

Colui che ha sostenuto le spese ha adito il Tribunale di Nola chiedendo che il proprietario dell’abitazione posta al piano primo fosse condannato al pagamento di una somma a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali subiti, a seguito della mancata corresponsione della quota di sua spettanza.

I giudici territoriali, sia in primo sia in secondo grado, hanno rigettato la richiesta dell’attore.

La pronuncia

Anche gli Ermellini hanno respinto la domanda del proprietario dell’appartamento al piano terra, in quanto lo stesso non ha provato, nel corso dei giudizi di merito, il presupposto dell’urgenza delle opere realizzate sulla parte comune del condominio, che è invece occorrente.

L’art. 1134 c.c. riconosce il diritto ad un condomino di ottenere il rimborso delle spese dallo stesso sostenute per la gestione delle parti comuni dell’edificio, senza previa autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, solamente nel caso in cui le stesse siano urgenti.

Secondo la Cassazione,  detta urgenza si riscontra in quegli esborsi che, da un lato, sono giustificati dall’esigenza di manutenzione e che, dall’altro lato, non possono essere differiti senza danno o pericolo fino all’ottenimento della predetta autorizzazione.

È, in ogni caso, onere di chi agisce per ottenere il rimborso delle anticipazioni, dimostrare la sussistenza di tale presupposto. Non ne è necessaria la prova, invece, solo nell’ipotesi di mera trascuranza degli altri condomini.

La regola così enunciata si applica anche al condominio minimo, la cui assemblea può ovviamente deliberare solo all’unanimità. In mancanza di accordo, tuttavia, è comunque indispensabile ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere l’approvazione all’esecuzione delle opere di riparazione, ai sensi dell’art. 1105 c.c..

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Con ordinanza n. 30472/2018, la Cassazione ha statuito che il danneggiato che agisce per richiedere il risarcimento del danno da occupazione di un bene condominiale, come il cortile, deve provare il pregiudizio economico subito a seguito dell’occupazione.

Il danno nascerebbe dalla perdita della disponibilità del bene, il quale perderebbe così la stessa utilità che avrebbe se fosse libero.

Per tale motivo, risulterebbe accertabile dal Giudice solo mediante presunzioni e, la liquidazione, deriverebbe da un cd. danno figurativo.

Nel caso di specie, un condominio ha citato in giudizio il proprietario di un locale commerciale sito all’interno del condominio perché ha occupato un garage dello stabile con paletti e catene, impedendo così l’accesso agli altri condomini.

Il condomino convenuto si è costituito in giudizio invocando la proprietà esclusiva del bene.

La Suprema Corte ha affermato che colui che ha subito il danno è onerato della prova del pregiudizio patrimoniale patito.

Il fatto lesivo coincide con il danno subito, quindi con l’occupazione della “res” e, una volta allegato il “danno conseguenza”, le circostanze assunte dal danneggiato verranno considerate su base presuntiva-probabilistica.

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Sent. cortile condominio

Con la sentenza 33155/2018 la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che è improcedibile il ricorso per Cassazione se, all’atto del deposito, il difensore non ha rispettato l’onere di depositare il provvedimento che gli è stato notificato, completo della “relata di notifica”.

La vicenda è sorta nel 2014, quando la Società s.r.l ha notificato a T.M. un atto di precetto. L’intimata propose appello agli atti esecutivi per vizi formali del precetto.

Più che per i motivi di ricorso, la Suprema Corte, per quanto riguarda la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, assume che non è stata prodotta una copia autentica della relazione di notificazione della suddetta sentenza, come richiesto dall’art. 369 c.p.c., e non tanto per la mancata produzione della copia autentica della sentenza impugnata.

Per tale motivo, gli Ermellini, hanno ritenuto il ricorso improcedibile.

Chi impugna un provvedimento per Cassazione, com’è noto, ai sensi dell’art. 326 c.p.c., ha il dovere di depositare il provvedimento che gli è stato notificato, completo di relazione di notificazione ( art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c.); nel caso di specie, alla ricorrente, le è stata notificata la sentenza d’appello per mezzo di posta elettronica certificata (PEC).

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inapplicab. princ non contestazione per ric notificato via pec

Con la recente ordinanza n. 31185 del 3 dicembre 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha delineato i limiti della responsabilità di una banca per il fatto illecito commesso dai propri dipendenti.

Il fatto.

Due attori, persone fisiche, hanno convenuto in giudizio la Banca, chiedendo l’accertamento dell’insussistenza di loro obbligazioni nei confronti del medesimo Istituto di credito sulla base delle movimentazioni relative al conto corrente loro cointestato, nonché la condanna della parte convenuta al risarcimento dei danni subiti per essere stati imputati del reato di appropriazione indebita.

La banca ha chiamato in manleva due propri dipendenti, autori materiali delle condotte fonte di danno.

Il Tribunale di Lodi ha solamente accolto la domanda di accertamento negativo degli attori, rigettando la richiesta di condanna nei confronti dei dipendenti della Banca.

La Corte d’Appello di Milano ha anche condannato la Banca al risarcimento dei danni patiti dagli attori.

La pronuncia.

Sul ricorso promosso dall’Istituto, la Corte ha stabilito che “la responsabilità della banca per fatto illecito dei suoi dipendenti scatta ogniqualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile all’attività lavorativa del dipendente, e quindi anche se questi abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro, sempre che sia rimasto comunque nell’ambito dell’incarico affidatogli“.

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