Il T.A.R. Marche, con la sentenza n. 484, depositata in data 12 luglio 2019, ha affermato che l’ordinanza di demolizione di un manufatto realizzato in assenza del permesso di costruire deve essere motivata, anche sinteticamente, purché siano indicate specificatamente le ragioni che hanno indotto l’amministrazione comunale a qualificare la realizzazione dell’intervento edilizio come nuova costruzione.

Il fatto

La ricorrente, in qualità di committente ed esecutrice dei lavori, impugnava l’ordinanza di demolizione di opere (nella fattispecie copertura di spazio esterno con materiale plastico e legno e copertura di terrazzo) realizzate in assenza di titolo edilizio con conseguente aumento di volumetria dell’edificio esistente. Il Comune si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso. Successivamente il T.A.R. sospendeva il provvedimento impugnato, accogliendo l’istanza cautelare proposta dalla ricorrente.

La pronuncia

Il T.A.R. Marche, riprendendo un precedente giurisprudenziale del Consiglio di Stato del 2018, ha statuito che l’Amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo le ragioni che inducono a qualificare l’opera realizzata come nuova costruzione, a fronte di manufatti che in relazione alle dimensioni, alla natura pertinenziale e al materiale realizzato potrebbero essere ricondotti nell’alveo di interventi realizzati senza permesso di costruire. Lo svolgimento di un’attenta istruttoria risponde all’esigenza di individuare le parti che hanno una certa rilevanza edilizia in modo tale che l’ordine di demolizione non riguardi l’intera struttura, con conseguente possibile acquisizione da parte dell’amministrazione dell’area interessata qualora il privato non ottemperi.
Nel caso di specie le opere realizzate sono costituite da strutture facilmente amovibili e da altre più stabili e pertanto è necessaria un’adeguata motivazione sulle ragioni per cui le suddette opere comportino un aumento di volume e di superficie utile dell’edificio esistente, tali da necessitare il rilascio di un permesso di costruire.

Sentenza TAR Marche n. 484_2019

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

Seppur in accoglimento del lamentato vizio di motivazione, i Giudici della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5803 del 28 febbraio scorso, concludono per la legittimità del recesso anticipato comunicato dalla società conduttrice dell’immobile commerciale ex art. 27, u.c., L. n. 392/1978 motivato dallo stato di crisi.

Il fatto

La società Alfa aveva concesso in affitto alla società Beta un immobile adibito ad ufficio il cui canone, a distanza di qualche tempo, si era rivelato troppo oneroso per Beta che stava attraversando un periodo di difficoltà.

Alla luce di tale situazione e dopo aver già ottenuto una riduzione del canone, Beta decideva di comunicare ad Alfa il recesso dal contratto per gravi motivi, allegando diverse circostanze quali la contrazione del fatturato, la presenza di perdite consistenti, l’esistenza di esuberi e l’avvio della contrattazione di solidarietà. Una volta concluso il periodo di preavviso, indicato dalla legge in sei mesi dalla comunicazione di recesso, la società Beta interrompeva quindi il pagamento del canone ritenendo risolto il contratto.

La società Alfa, reputando illegittimo il recesso comunicato da Beta, richiedeva ed otteneva dal Tribunale di Padova un decreto ingiuntivo nei confronti della società conduttrice per il pagamento dei canoni maturati successivamente al preavviso di recesso.

Beta proponeva quindi opposizione al decreto chiedendo la revoca del medesimo ed, in via riconvenzionale, l’accertamento della legittimità del recesso per gravi motivi, per altro mai contestati dalla società locatrice.

Il Tribunale in primo grado rigettava l’opposizione e confermava il decreto ingiuntivo.

La Corte d’Appello adita da Beta, pur dando atto dello stato di crisi, sottolineava che la situazione di Beta non era a lei sconosciuta né poteva ritenersi imprevedibile. Anzi, sulla base della crisi aveva già richiesto ed ottenuto una diminuzione del canone. Pertanto la Corte, confermando la sentenza di primo grado, rigettava il gravame ritenendo il recesso di Beta illegittimo.

La pronuncia

La società Beta ha quindi proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello denunciando un vizio di motivazione. I Giudici del gravame, infatti, dopo aver premesso l’esistenza dello stato di crisi in cui versava la conduttrice, hanno concluso illogicamente per l’inesistenza dei gravi motivi a sostegno del comunicato recesso.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del motivo esposto, ha affermato che “in tema di recesso del conduttore dal contratto di locazione, i gravi motivi di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, comma 8, devono essere determinati da fatti estranei alla volontà del medesimo, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto e tali da rendergli oltremodo gravosa la sua prosecuzione”. In tale prospettiva vanno valutate le scelte compiute dall’impresa per far fronte “a sopravvenute esigenze di economicità e produttività”. Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, “ove il locatario svolga la propria attività in diversi rami di azienda, per i quali utilizzi distinti immobili, i gravi motivi, giustificativi del recesso anticipato (…) devono essere accertati in relazione all’attività svolta nei locali per cui viene effettuato il recesso, senza possibilità per il locatore di negare rilevanza alle difficoltà riscontrate per tale attività in considerazione dei risultati positivi registrati in altri rami azienda.

Cass. Civ. sentenza n. 5803-2019

Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

L’acquisto di un telefono cellulare fuori dai canali ufficiali di commercializzazione, per giunta da soggetto ignoto, è certamente sintomatico del dolo, elemento soggettivo necessario per la configurazione del reato di ricettazione.

Il fatto

Un ragazzo, all’esito di un controllo di polizia, è risultato possessore di un telefono cellulare, il cui smarrimento era già stato denunciato dal legittimo proprietario.

Sia in primo grado, sia in appello, i giudici di merito hanno condannato lo stesso ragazzo per il reato di concorso nella ricettazione.

Egli ha, dunque, promosso ricorso per cassazione, chiedendo la riqualificazione del fatto nella fattispecie di cui all’art. 647 c.p. (“appropriazione di cose smarrite, del tesoro o do cose avute per errore o caso fortuito“), depenalizzato dal D.Lgs. n. 7/2016.

La pronuncia

Con la sentenza n. 34481, pubblicata il 29 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna inflittagli.

Secondo i giudici di legittimità, la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo, richiesto per la configurazione del delitto di ricettazione, si è raggiunta sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è stata rivelatrice della volontà di occultamento, spiegabile con un acquisto in mala fede.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, infatti, ricorre il dolo di ricettazione nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza.

Sebbene non fosse richiesto all’imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, dunque, egli avrebbe dovuto comunque fornire una attendibile spiegazione dell’origine del possesso delle cose medesime.

Cass_34481_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Il giustificato motivo oggettivo, necessario per la legittimità del licenziamento, si sostanzia in ogni modifica della struttura organizzativa dell’impresa, che abbia quale suo effetto la soppressione di una determinata posizione lavorativa, indipendentemente dall’obiettivo perseguito dall’imprenditore, sia esso un incremento della produttività, oppure la necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli.

Il fatto

Un lavoratore ha impugnato il provvedimento con il quale il datore di lavoro lo ha licenziato per giustificato motivo oggettivo in quanto, nonostante fosse vero che i profitti dell’azienda fossero calati, i risultati di gestione sono risultati comunque positivi.

Sia il Tribunale, in primo grado, sia la Corte d’Appello, in secondo, hanno accolto le ragioni del dipendente, condannando l’imprenditore al pagamento delle differenze di retribuzione.

Quest’ultimo ha, allora, promosso ricorso per cassazione, ritenendo che il licenziamento in esame rientrasse nell’ipotesi di riassetto organizzativo dell’impresa, in considerazione del minore volume d’affari e dell’andamento negativo dei ricavi aziendali.

La pronuncia

Con la sentenza n. 19302, pubblicata il 18 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.

La giurisprudenza di legittimità ha, da tempo, pronunciato il principio secondo il quale “le ragioni dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero all’incremento della redditività dell’impresa, che determinano un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso al sopressione di un posto di lavoro, possono legittimare il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo” (Cass. Sez. Lav. 25201/2016).

Pertanto, la costante riduzione dei ricavi, il calo delle vendite ed il dilagare della crisi economica rendono legittima la decisione del datore di lavoro di ridurre il personale dipendente.

Cass_19302_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La nozione di violenza è riferibile a qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare, o omettere qualcosa, indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico.

Il fatto

Un ragazzo a bordo della propria automobile ha seguito la vettura condotta dalla propria ex fidanzata fuori da una discoteca, tentando di fermarla per discutere con lei.

Una volta che quest’ultima ha accostato, lui ha estratto con la forza la ragazza dall’abitacolo dell’auto, nonostante la chiara manifestazione di volontà contraria della stessa.

Dopo essere stato querelato dalla giovane, l’uomo è stato condannato, sia in primo grado, sia in appello, ad una pena detentiva, condizionalmente sospesa, per il reato di violenza privata.

L’imputato ha, allora, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 35092, pubblicata il 31 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Il delitto di violenza privata, secondo gli Ermellini, tutela la libertà psichica dell’individuo e reprime genericamente fatti di coercizione non espressamente considerati da altre norme di legge.

Il requisito della violenza, inoltre, si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione e di azione della persona offesa.

Può consistere anche in una violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui.

Per tali ragioni, hanno confermato la condanna impartita dai giudici di merito al giovane ragazzo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9348 di data 4.04.2019, ripercorrendo due contrapposti indirizzi giurisprudenziali, da risposta affermativa al quesito rilevando che nel nostro ordinamento non sono previsti danni risarcibili per il solo verificarsi dell’evento che li ha prodotti.

Il fatto

Durante una manovra l’automobile guidata da Tizio urtava il motociclo di Caia parcheggiato in strada causando ingenti danni.

Alfa, impresa assicuratrice del veicolo antagonista, liquidava in favore di Caia la somma di euro 3.475,00, che quest’ultima tratteneva in via di acconto. In un secondo momento Caia adiva il Giudice di Pace di Brindisi per ottenere il risarcimento integrale dei danni subiti, da ella quantificati in euro 7.355,46 per le riparazioni ed euro 150,00 per i danni da fermo tecnico del mezzo, durato tre giorni.

Il Giudice di Pace di Brindisi e, in secondo grado il Tribunale, rigettavano la richiesta risarcitoria di Caia la quale proponeva ricorso per Cassazione affermando che il danno da fermo tecnico non richiedeva una prova specifica, essendo insito nell’impossibilità di usare il mezzo, e che la sosta forzata era di per se fonte di spese (tassa di circolazione, premio assicurativo, naturale deprezzamento del bene).

La pronuncia

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso proposto da Caia, ripercorre i diversi orientamenti succedutisi nel tempo. Da atto di una giurisprudenza che riteneva il danno da fermo tecnico “liquidabile in via equitativa indipendentemente da una prova specifica in ordine al pregiudizio subito”; del contrapposto orientamento più risalente secondo il quale la mera indisponibilità del veicolo non era elemento sufficiente per dimostrare il danno patito e, infine, di un terzo filone, inaugurato nel 2015 cui la Corte nell’ordinanza in commento aderisce, secondo il quale “l’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per le riparazioni sia un danno che deve essere allegato e dimostrato; che la prova del danno non possa consistere nella dimostrazione della mera indisponibilità del veicolo, ma che occorra fornire la prova della spesa sostenuta per procurarsi un mezzo sostitutivo ovvero della perdita subita per avere dovuto rinunciare ai proventi ricavati dall’uso del mezzo”.

Diversamente, infatti, si ammetterebbe una funzione sanzionatoria della responsabilità civile e si utilizzerebbe il criterio equitativo in modo distorto, cioè non in funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno ma per sopperire al difetto di prova.

Ordinanza n. 9348 dd. 4.04

Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

I caschi con omologazioni DGM (cd. “a scodella”) sono accessori non consentiti sia per i conducenti di motocicli, sia per quelli di ciclomotori.

Il fatto

Un ragazzo a bordo del proprio motociclo, con indosso un casco “a scodella”, è stato urtato da un’autovettura.

Lo stesso ha, dunque, citato in giudizio la Compagnia che ha assicurato per la responsabilità civile l’automobile del responsabile.

I giudici di merito, in ordine alla determinazione del danno, hanno rilevato che le lesioni sarebbero state evitate con l’uso di un casco regolare. In applicazione dell’art. 1227, co. 2, c.c., quindi, hanno ritenuto risarcibili solo le lesioni diverse da quelle subite al volto, liquidando il relativo danno.

Il motociclista ha, allora, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 20558, pubblicata il 30 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Il D.M. 28 luglio 2000 ha sospeso le omologazioni DGM per l’utilizzo di motocicli.

La successiva Legge n. 120/2010, modificando l’art. 171 del Codice della Strada, ha reso illegale il casco protettivo cd. a scodella.

Sussistendo, dunque, all’epoca del sinistro, il divieto dell’utilizzo di detto casco, non è stato correttamente risarcito il danno subito dal conducente per la mancata protezione del volto.

Cass_20558_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.