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Costruzioni in aderenza e distanze legali:

Qualora fosse eretta una costruzione in aderenza al muro posto sul confine deve essere identificata anche in presenza di modeste intercapedini se, le stesse, derivino da anomalie edificatorie e, questo, rileva ai fini dell’articolo 877 del codice civile.

La possibilità di costruire in aderenza alla fabbrica altrui è consentita, salvo l’obbligatorietà del pagamento che si instaura dalla eventuale occupazione del suolo di terzi, anche se il muro presenta irregolarità, come, per esempio, sporgenze, rientranze etc. qualora si dovesse sviluppare in altezza; il tutto è possibile se l’intercapedine possa ugualmente colmarsi mediante opportuni accorgimenti tecnici a cura del costruttore prevenuto.

Cass. n. 2696/2023

 

 

Il compratore, che abbia subito un danno a causa dei vizi della cosa, può rinunciare a proporre l’azione per la risoluzione del contratto o per la riduzione del prezzo e esercitare la sola azione di risarcimento del danno dipendente dall’inadempimento del venditore.

Devono, comunque, ricorrere tutti i presupposti dell’azione di garanzia e, quindi, siano dimostrate la sussistenza e la rilevanza dei vizi.

Inoltre, devono essere osservati i temrini di decadenza e di prescrizione ed, in generre, tutte le condizioni stabilite per l’esercizio di tale azione.

Sentenza febbraio 2022

 

 

In tema di contratto d’opera e, se del caso, di difformità e vizi dell’opera stessa, ai sensi dell’art. 2226 c.c., la denuncia deve essere rivolta all’effettivo prestatore d’opera, sicchè non è idonea ad impedire la decadenza la denuncia, anche se tempestiva, effettuata ad un soggetto terzo che, pur avendo un rapporto diretto con il committente, non abbia diretta relazione con il prestatore d’opera e che risulti del tutto estraneo in ordine alla responsabilità per i vizi riscontrati.

(artt. 1218, 1223, 2226 e 2697 c.c.)

Sez. II, ordinanza n. 23370/2021

Con la sentenza dello scorso 29 marzo, la Corte di Cassazione afferma che il legislatore ha disciplinato in modo autonomo il contratto di leasing, nel solco di quanto già previsto nella legge fallimentare, e non è quindi più ammissibile l’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. in materia di risoluzione della vendita con riserva di proprietà, il quale imponeva al concedente la restituzione dei canoni percepiti fatto salvo il diritto ad un equo compenso per l’utilizzo del bene.

Il fatto

La società Alfa, quale concedente, stipulava con la società Beta, utilizzatrice, un contratto di locazione finanziaria di natura traslativa avente ad oggetto un bene immobile ad uso commerciale.

Nel corso del contratto la società utilizzatrice interrompeva il pagamento dei canoni e la società Alfa le intimava quindi la risoluzione del contratto per inadempimento, chiedendo altresì la restituzione del bene.

In seguito al rilascio spontaneo dell’immobile, la società Beta veniva dichiarata fallita e la società Alfa domandava l’ammissione al passivo fallimentare del credito per le rate non pagate e scadute al momento della risoluzione del contratto, oltre all’importo dovuto per le rate a scadere, dedotto l’importo eventualmente ricavato dalla vendita del bene ovvero quello ad esso attribuito con perizia di stima, il tutto in forza di espressa previsione contrattuale.

Il Giudice Delegato rigettava la domanda di insinuazione al passivo poiché ritenuta incompleta rispetto alle previsioni dell’art. 1526 c.c., la cui disciplina, applicata in via analogica, era considerata inderogabile rispetto alla volontà delle parti.

A seguito del rigetto dell’opposizione allo stato passivo da parte del Tribunale di Mantova, la società Alfa promuoveva ricorso per Cassazione affermando, per quanto qui interessa, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., ritenuto prevalente rispetto alle pattuizioni contrattuali, ed invocando l’applicabilità dello ius superveniens costituito dalla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, in quanto, in assenza di un puntuale intervento legislativo, la novella ed i principi ispiratori erano applicabili in via analogica anche ai contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore.

La pronuncia

La Corte di Cassazione, dopo aver verificato positivamente l’applicabilità al caso di specie del principio dello ius superveniens, ha dato atto che il contratto di leasing, prima dell’intervento legislativo, era da considerarsi “come contratto atipico o innominato” con riferimento al quale la giurisprudenza aveva elaborato la distinzione tra “leasing di godimento” e “leasing traslativo” ed applicato a quest’ultima tipologia la disciplina prevista per la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà, disciplina considerata inderogabile.

La legge n. 124/2017, in linea con quanto già previsto dalla legge fallimentare, ha invero superato tale distinzione e dato una disciplina organica al contratto in esame, tant’è che la Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, verificatasi in data anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136 – 140), sono regolati dalla disciplina della L. Fall., art. 72 quater, applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore.

In caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato.

La vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Sulla base del valore di mercato del bene, come stabilito sulla base della stima su menzionata, sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, pari ai canoni scaduti e non pagati ante-fallimento ed ai canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione.

Eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto“.

Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

Il T.A.R. Campania, con una sentenza del 2019, ha affermato che la stipulazione del contratto di locazione non sia idonea a escludere i doveri di controllo, cura e vigilanza sorti in capo al proprietario dell’immobile, che è responsabile degli abusi edilizi commessi dal conduttore, al quale ha trasferito la disponibilità materiale e il godimento del bene.

Il fatto

Il proprietario di un immobile impugnava l’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, emessa dal Comune di Pagani, perché aveva appreso dell’esistenza di interventi abusivi realizzati dal conduttore solo a seguito della notifica del provvedimento.

Il Comune e il conduttore non si costituivano in giudizio.

La pronuncia

Il T.A.R. Salerno, aderendo ad un orientamento consolidato della giurisprudenza, ha ritenuto che sia indifferente la circostanza che il proprietario dell’immobile, sul quale è stato realizzato l’abuso, non sia in realtà l’autore materiale dello stesso. L’ordine di demolizione e riduzione in pristino dello stato dei luoghi è un atto di tipo ripristinatorio, che è rivolto nei confronti di chi è in un rapporto con la res tale da assicurare l’eliminazione delle conseguenze dell’abuso tramite la rimozione delle opere realizzate. 
 
Nel caso di specie, il proprietario non aveva partecipato alla realizzazione dell’abuso ma è venuto meno ai suoi obblighi di vigilanza e controllo sull’immobile locato, sorti con la stipulazione del contratto determinandone la sua responsabilità.  

 

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

 

La Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24855/2019, depositata il 04 ottobre 2019, ha statuito che nel caso in cui risulti, da contratto, una vettura non conforme a quella indicata, l’acquirente può proporre domanda di risoluzione. Per tale motivo non vi sono alternative per il venditore se le dichiarazione sullo stato della macchina sono mendaci.

Il fatto

Un uomo ha stipulato un contratto di compravendita di una autovettura usata Nissan.

In primo grado è stata rigettata la domanda di risoluzione contrattuale per la non conformità della vettura con quella indicata in contratto.

L’acquirente ha proposto ricorso per Cassazione contro la pronuncia della Corte d’Appello che ha dichiarato inammissibile il gravame proposto.

La pronuncia

La Corte ha precisato che il ricorrente ha proposto la domanda di risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1490 e 1492 c.c., per non conformità del veicolo con quella descitta in contratto; in appello ha fatto riferimemento anche sulla malafede e sul dolo della venditrice con domanda di annullamento del contratto.

Tale domanda nuova non ha pregiudicato quella originaria di risoluzione sulla quale i giudici dell’Appello avrebbero dovuto pronunciarsi.

Per tale motivo gli Ermellini hanno accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza.

Macchina alterata km

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13354, depositata in data 26 maggio 2017, ha affermato che il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne da parte del genitore obbligato cessa quando il figlio ha raggiunto l’autosufficienza economica, anche qualora svolga attività lavorativa con contratti a termine e guadagni contenuti.  

Il fatto

Il Tribunale di Civitavecchia disponeva in favore dei figli un contributo paterno per il loro mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale, nella quale convivevano con la madre. Il padre, obbligato al versamento del relativo assegno, proponeva appello chiedendo la revoca dell’assegno di mantenimento dei figli perché maggiorenni e autosufficienti economicamente. La Corte D’Appello di Roma revocava il contributo paterno a decorrere dall’anno in cui figli hanno iniziato a svolgere regolare attività lavorativa. Il padre ricorreva in Cassazione per vedersi restituire le somme finora versate a titolo di mantenimento. I figli resistevano con controricorso e proponevano ricorso incidentale.

La pronuncia

La Cassazione ha statuito che i figli maggiorenni che svolgono regolare attività lavorativa, seppur con contratti a termine e con guadagni contenuti, sono economicamente autosufficienti e pertanto non è più dovuto loro l’assegno di mantenimento.
 
Nel caso di specie, i figli fino al 2010 non svolgevano un’attività lavorativa stabile, in particolare uno di loro era titolare di un contratto di apprendistato. A decorrere da quella data i figli hanno cominciato a lavorare con contratti a termine e con guadagni contenuti, con la conseguenza che è stato a loro revocato sia l’assegno di mantenimento, che l’assegnazione della casa coniugale.  
sentenza n. 13354_2017

Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

 

La giurisprudenza prevalente ritiene che il contratto definitivo costituisca l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni tra le parti, a differenza di parte della dottrina che, in virtù della teoria procedimentale, ritiene utile la valutazione del collegamento funzionale tra il preliminare ed il definitivo.

Il fatto

Il promissario acquirente di un immobile si è impegnato a versare, al compromesso, un terzo del prezzo pattuito per la compravendita e, al rogito, i restanti due terzi in contanti o mediante accollo di parte del mutuo residuo stipulato originariamente dal promissario venditore.

Nel contratto definitivo, tuttavia, le parti hanno pattuito che l’acquirente si accollava la parte di mutuo per l’intero sino all’estinzione.

Il venditore ha, allora, omesso il pagamento delle restanti rate del mutuo.

L’acquirente, chiesto del pagamento dalla Banca, ha citato in giudizio il venditore e il Tribunale ha accolto la domanda, ritenendo che il contratto definitivo non potesse comportare a carico dell’acquirente l’assunzione di maggiori oneri non previsti né convenuti.

La Corte d’Appello, invece, qualificata la fattispecie come accollo cumulativo esterno, ha ritenuto che il pagamento rientrasse nell’obbligazione assunta, e quindi che l’accollo si estendesse a tutta la somma oggetto di mutuo.

L’acquirente ha, dunque, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 21951, pubblicata il 2 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso perché fondato.

Nonostante sia pacifico che il contenuto dell’atto pubblico prevalga sul preliminare, quest’ultimo può in astratto essere utilizzato per indagare sulla comune intenzione delle parti.

L’accollante ha dunque diritto di ripetere quanto pagato in più rispetto al prezzo pattuito per la compravendita.

Un’interpretazione diversa sarebbe contro il principio dell’interpretazione di buona fede, perché il compratore verrebbe a pagare un prezzo concordato e di gran lunga superiore.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con sentenza n. 12803/2019, depositata il 14 maggio 2019, la Corte di Cassazione, sezione II Civile, ha stabilito che i condòmini, anche senza convocare l’assemblea condominiale, hanno la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto che la società ha stipulato con il condominio.

Il fatto

Nel caso di specie, alcuni condomini hanno citato in giudizio la società appaltatrice che aveva stipulato il contratto con il condominio, per la inidoneità all’uso dell’opera da essa realizzata costituita nella sostituzione della pavimentazione delle terrazze del fabbricato o, in via subordinata, il suo rifacimento a regola d’arte, e il risarcimento del danno.

In primo grado non venne accolta la domanda di risoluzione del contratto e dell’eliminazione dei vizi, però venne condannata la società a pagare 12.000,00 Euro di risarcimento danni.

La Corte territoriale, in riforma, ha condannato la società appaltatrice al rifacimento della pavimentazione delle terrazze; al contrario, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno.

La stessa Corte ha statuito che i condomini hanno la legittimazione ad agire nei confronti della società, poichè titolari esclusivi delle terrazze.

La pronuncia 

La Corte di Cassazione, ha confermato quanto stabilito dalla Corte d’Appello, precisando che la qualità di condomino è legata inscindibilmente a quella di titolare esclusivo di parte dell’edificio.

Così deciso, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società.

sciglimento contr appalto di condomino

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Sezione Sesta, della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 9937/2019, depositata in data 09 aprile 2019, ha deciso che, gli sposi che hanno sottoscritto un contratto di banqueting con il proprietario di una villa per il loro matrimonio e decidono di cambiare la location, devono risarcire il proprietario.

Il fatto

Il Tribunale ha dato ragione al proprietario del ristorante dedicato alla celebrazione dei matrimoni, il quale nel contratto di banqueting ha inserito una clausula in caso di recesso da parte degli sposi.

Tale clausula prevedeva il pagamento di una penale nel caso in cui gli sposi avrebbero deciso di cambiare location.

Di tale avviso è stata anche la Corte territoriole, che ha escluso la riconducibilità della clausula nell’alveo delle vessatorie, precisando che, il consenso, è derivato da una contrattazione tra le parti.

La pronuncia 

La Cassazione ha respinto il ricorso promosso dagli sposi, precisando che non vi è alcuna vessatorietà nella clausula prevista dal contratto.

Specifica che è: «una consensuale previsione di una specifica facoltà assicurata al cliente dietro pagamento di un corrispettivo, variamente determinato in funzione dell’epoca dell’eventuale recesso».

In conclusione, tale pattuizione è derivata dalla volontà di entrambe le parti al momento della conclusione del contratto.

Contratto di banqueting sposi devono risarcire

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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