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In tema di notificazioni, l’art. 139 c.p.c. non dispone alcun ordine da seguire nelle ricerche del luogo, potendo scegliere di eseguire la notifica presso la casa di abitazione o l’ufficio, purché si tratti di luogo situato nel Comune di residenza del destinatario.

È, dunque, nulla la notifica effettuata con le modalità previste dall’art. 143 c.p.c., quando è noto il luogo di lavoro del destinatario.

Il fatto

Una società ha notificato un decreto ingiuntivo ad una persona fisica, ai sensi dell’art. 143 c.c..

In seguito, il medesimo creditore ha notificato atto di precetto presso il luogo di lavoro del debitore.

Quest’ultimo ha proposto, dunque, un’opposizione tardiva al decreto ingiuntivo, che è stata accolta dal Tribunale di Taranto, il quale ha dichiarato la nullità della prima notifica ex art. 143 c.p.c..

La Corte d’Appello di Lecce ha, invece, ritenuto inammissibile l’opposizione e ha annullato la sentenza del giudice di primo grado.

Il debitore ha, dunque, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte ha ritenuto infondata la pretesa secondo cui, non avendo reperito alcun campanello presso l’indirizzo di residenza, l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto eseguire una seconda notifica presso l’ufficio del destinatario.

L’art. 139 c.p.c., infatti, nel prescrivere che la notifica si esegue nel luogo di residenza del destinatario e nel precisare che questi va ricercato nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio, non dispone un ordine tassativo da seguire in tali ricerche.

In ogni caso, secondo la costante giurisprudenza di legittimità in tema di notificazioni ex art. 143 c.p.c., qualora l’ufficiale giudiziario non abbia rinvenuto il destinatario presso l’abitazione risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca  ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi altrimenti nulla la notificazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con l’ordinanza n. 5794, pubblicata il 28 febbraio 2019, la Corte di Cassazione ha delineato la nullità del contratto di locazione stipulato verbalmente e ha riconosciuto il diritto dell’inquilino ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate al proprietario di casa.

Il fatto

Il proprietario di un appartamento lo ha affittato per il periodo dal marzo 2011 all’agosto 2012 al canone di 900 euro mensili, senza tuttavia registrare alcun contratto.

Nel marzo 2012, tuttavia, su richiesta dell’inquilino, il locatore ha registrato un contratto di locazione nel quale è previsto un canone inferiore a quello effettivamente corrisposto, pari a 400 euro mensili.

Il conduttore, allora, lo ha convenuto in giudizio chiedendo la restituzione delle somme indebitamente pagate, corrispondenti ad euro 500 mensili per tutta la durata del contratto.

Sia il Tribunale di Lucca, in primo grado, sia la Corte d’Appello di Firenze, in secondo, hanno però rigettato la domanda. Secondo i giudici del merito, il contratto di locazione intercorso tra le parti non è ascrivibile alla categoria “contratti non registrati nel termine stabilito dalla legge”, essendovi prova che il contratto del marzo 2012 è stato registrato subito dopo la stipulazione.

L’inquilino ha promosso ricorso per cassazione in quanto il contratto stipulato prima del marzo 2012 sarebbe nullo per mancanza di forma scritta.

La pronuncia

La Cassazione ha accolto il ricorso ritenendolo fondato.

Come noto, la sentenza delle Sezioni Unite n. 18214/2015 ha affermato che i contratti di locazione ad uso abitativo stipulati senza la forma scritta sono affetti da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, eccezion fatta per l’ipotesi in cui la forma verbale sia abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso la nullità (cd. di protezione) è rilevabile dal solo conduttore.

Nel caso, dunque, di contratto a forma verbale liberamente concordata tra locatore e conduttore trovano applicazione i principi generali in tema di nullità.

Di conseguenza, se da un lato il locatore può agire in giudizio per il rilascio dell’immobile occupato senza alcun titolo, dall’altro il conduttore può ottenere la parziale restituzione delle somme versate a titolo di canone in misura eccedente a quanto concordato.

Nella fattispecie concreta, i giudici di merito hanno erroneamente escluso la ripetizione di quanto pagato in più dal conduttore, facendo riferimento a quanto concordato tra le parti anziché al canone concordato dalle associazioni di categoria.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la recente ordinanza n. 966 del 16 gennaio 2019, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, nell’ambito dell’usucapione di beni ereditari, non sono necessari atti di interversione del possesso.

Il fatto

Alla morte del padre, un figlio ha citato in giudizio gli altri due fratelli per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria, con rendiconto.

Uno dei convenuti, costituitosi in giudizio, ha chiesto l’accertamento in via riconvenzionale dell’acquisto per usucapione della proprietà dell’immobile nel quale ha vissuto fino ad allora.

La Corte d’Appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Vicenza, ha respinto detta domanda di acquisto della proprietà a titolo originario.

Il soccombente, pertanto, ha promosso il giudizio di legittimità ritenendo che la domanda di usucapione dei beni ereditari non richiedesse la sussistenza di alcun atto di interversione del possesso.

La pronuncia

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto infondato.

I giudici del Palazzaccio, pur accogliendo in punto di diritto la posizione del ricorrente, hanno ritenuto che “la Corte d’Appello non ha fondato la decisione sul rilievo che non vi fosse prova di atti di interversione del possesso – che non sono richiesti ai fini dell’usucapione di beni ereditari -, bensì sul rilievo che non fosse provato il possesso ad excludendum, vale a dire una situazione nella quale il rapporto materiale del coerede con i beni ereditari sia tale da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di analogo rapporto“.

È stato quindi ribadito il principio, già affermato tra le altre da Cass. n. 10734/2018, secondo il quale il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso.

L’art. 714 c.c., infatti, non richiede alcun atto di interversione.

Al fine di usucapire un bene facente parte di un asse ereditario, allora, occorre ed è sufficiente estendere il possesso in termini di esclusività o ad excludendum: il coerede deve godere del bene con modi incompatibili con la possibilità di godimento altrui.

Studio Legale Damoli

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