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La Corte di Cassazione con sentenze nn. 10905/2020 e 29221/20211, scrive: «se l’offesa viene proferita nel corso di una riunione “a distanza” (o “da remoto”), tra più persone contestualmente collegate, alla quale partecipa anche l’offeso, ricorrerà l’ipotesi dell’ingiuria commessa alla presenza di più persone (fatto depenalizzato). Di contro, laddove vengano in rilievo comunicazioni (scritte o vocali), indirizzate all’offeso e ad altre persone non contestualmente “presenti” (in accezione estesa alla presenza “virtuale” o “da remoto”), ricorreranno i presupposti della diffamazione […]» 

Pertanto, l’invio di messaggi denigratori hanno rilevanza penale solo se il relativo destinatario non risulta “online” nel momento in cui le offese vengono inviate (e, quindi, non è in grado di leggerla contestualmente), oppure, se non facente parte dei partecipanti del predetto gruppo.

Analizzando il contenuto dell’insulto (non solo turpiloqui e toni aspri, ma anche illazioni che potrebbero suscitare un dubbio sulla moralità o professionalità della vittima) si comprende se questo rientra nell’esercizio della critica, o, se consiste in attacchi alla moralità/professionalità di una persona, valutando così se tali messaggi rientrano nell’ingiuria (illecito civile) o, nella diffamazione (reato).

Così esponendo, si riporta come il Codice Penale disciplina i due istituti giuridici.

L’ingiuria: chiunque offenda l’onore o il decoro di una persona presente viene punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a € 516,00,   

La diffamazione: “Chiunque comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” viene punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1.032,00. stabilito dall’art. 595 del Codice Penale .

L’art. 85 del Testo Unico sulle leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773) prevede che “è vietato comparire mascherato in luogo pubblico“.

Questa norma, che è tuttora vigente, stabilisce anche che “è vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale con apposito manifesto“.

Chi contravviene e chi, invitato, non si toglie la maschera, è punito con la sanzione amministrativa da € 10 ad  103.

Questa fattispecie, all’epoca dell’emanazione di detto Testo Unico, costituiva reato. 

È stata poi depenalizzata dalla Legge 689/1981.

Secondo la giurisprudenza (molto datata) questo divieto costituisce ha carattere assoluto: è infatti diretto ad impedire che mediante il mascheramento possano compiersi reati.

L’art. 5 della Legge 22 maggio 1975, n. 152, inoltre, ha introdotto una nuova disposizione in materia di sicurezza e cioè che “è vietato l’uso dei caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo“.

Quest’ultima fattispecie costituisce reato ed è punita con l’arresto da 1 a 2 anni e con l’ammenda da € 1.000 ad € 2.000.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La nozione di violenza è riferibile a qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolva comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene così indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare, o omettere qualcosa, indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico.

Il fatto

Un ragazzo a bordo della propria automobile ha seguito la vettura condotta dalla propria ex fidanzata fuori da una discoteca, tentando di fermarla per discutere con lei.

Una volta che quest’ultima ha accostato, lui ha estratto con la forza la ragazza dall’abitacolo dell’auto, nonostante la chiara manifestazione di volontà contraria della stessa.

Dopo essere stato querelato dalla giovane, l’uomo è stato condannato, sia in primo grado, sia in appello, ad una pena detentiva, condizionalmente sospesa, per il reato di violenza privata.

L’imputato ha, allora, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con la sentenza n. 35092, pubblicata il 31 luglio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Il delitto di violenza privata, secondo gli Ermellini, tutela la libertà psichica dell’individuo e reprime genericamente fatti di coercizione non espressamente considerati da altre norme di legge.

Il requisito della violenza, inoltre, si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di autodeterminazione e di azione della persona offesa.

Può consistere anche in una violenza impropria, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui.

Per tali ragioni, hanno confermato la condanna impartita dai giudici di merito al giovane ragazzo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

L’espressione “ricevere cosa proveniente da delitto”, di cui all’art. 648 c.p., si riferisce a qualsiasi possesso, anche temporaneo, della cosa.

Il fatto

Un autotrasportatore è stato indagato per aver tenuto a bordo del proprio mezzo 39 scatoloni, contenenti ciascuno 25 kg di stoccafisso provento di furto.

Il Tribunale di Genova, all’esito del processo di primo grado, lo ha assolto dal reato di ricettazione perché, pur essendosi raggiunta la prova della provenienza delittuosa della merce trasportata, non si è escluso che il medesimo trasportatore ne avesse unicamente la detenzione, di per sé insufficiente ad integrare il reato ascrittogli.

La Corte d’Appello di Genova, in secondo grado, ha invece riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia.

Quest’ultimo, dunque, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che i giudici di merito avessero errato nel non distinguere il possesso della merce rubata dalla mera detenzione della stessa.

La pronuncia

Con la sentenza n. 20871, pubblicata il 15 maggio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando dunque la sentenza di secondo grado.

La consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, riconosce che il delitto di ricettazione si possa riferire anche a chiunque detenga la cosa di illecita provenienza, in quanto questa incriminazione tende ad impedire che soggetti diversi da coloro che hanno commesso un delitto appaiano interessati dalle cose provenienti da esso, al fine di trarne un vantaggio anche temporaneo.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

La disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p., che impone al pubblico ministero la comunicazione della richiesta di archiviazione all’offeso di particolari delitti commessi «con violenza alla persona», è applicabile anche ai reati di atti persecutori (612 bis c.p.) e di maltrattamenti in famiglia (572c.p.), sulla scorta di un’interpretazione estensiva del concetto de qua come previsto dal diritto sovrannazionale e comunitario. L’ampliamento del termine ricomprende anche quello di «violenza di genere» che non necessariamente si estrinseca in atti fisici e materiali. L’omissione dell’avviso predetto determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione, impugnabile con ricorso per Cassazione.

Il fatto

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, concordando con la richiesta formulata dall’organo dell’accusa, disponeva l’archiviazione del procedimento a carico di C.A., a seguito di presentazione di denuncia-querela da parte di F.M.C., per i reati previsti e puniti ex art. 612 bis c.p. e 594 c.p. Il difensore della persona offesa deduceva in Cassazione la violazione dell’art. 408, comma 3 bis, c.p.p. per ommessa comunicazione alla vittima della richiesta stessa. La difesa della persona offesa rappresentava come, pur avendo appreso del procedimento a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari alla propria assistita, non fosse stata data comunicazione della richiesta di archiviazione formulata dal P.M., con conseguente violazione dei principi partecipativi e del contradditorio.

La pronuncia

Il ricorso per Cassazione aveva ad oggetto la violazione della disposizione di cui al comma 3 bis dell’art. 408 c.p.p. nella parte in cui prevedeva la notifica obbligatoria dell’avviso della richiesta di archiviazione in tutti i casi di «delitti commessi con violenza alla persona», a prescindere dalla richiesta della persona offesa (che nel caso di specie non era stata formulata). Secondo la vittima, la fattispecie di stalking, di cui all’art. 612 c.p., deve senza dubbio ritenersi incluso nel novero di tali particolari fattispecie.

Le S.U. danno conto di un contrasto tra orientamenti in tema di applicabilità del comma sopracitato. Oltre all’interpretazione operata dal ricorrente, difatti, ne sussisteva una contrastante che vedrebbe, per la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., la non obbligatorietà di dare comunicazione della richiesta di archiviazione, se non espressamente indicata dal querelante.

Tale impostazione fondava sul raffronto con l’obbligo comunicativo dell’avviso ex 415 bis c.p.p. che, a differenza di quello ex 408 c.p.p., espressamente richiamava la fattispecie degli atti persecutori tra quelle che imponevano la comunicazione alla persona offesa dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

I giudici romani davano conto, inoltre, di come la questione riguardasse anche l’aspetto sostanziale circa la locuzione «violenza alla persona», interrogandosi se questa comprendesse solamente i casi di violenza fisica o anche alle ipotesi di violenza morale o psicologica.

L’ avviso obbligatorio alla vittima di reati commessi con violenza alla persona, ex 408, comma 3-bis, c.p.p. ha lo scopo di ampliare i diritti di partecipazione della stessa al procedimento penale. Dalle direzioni sovranazionali e comunitarie, che devono intendersi quale chiaro strumento interpretativo del nostro diritto, si evince come la ratio dell’istituto sia quello di dare specifica protezione alle vittime della violenza di genere, perpetuata contro le donne o come violenza domestica.

Il reato di stalking, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, rappresenta una delle espressioni di maggior aggressione alla sfera intima e fisica della persona offesa. Il percorso legislativo stesso che introduce la locuzione «delitti commessi con violenza alla persona» testimonia la volontà del legislatore di estendere il concetto a nozioni di violenza proprie dell’ambito internazionale e comunitario tra cui la violenza di genere, contro le donne e nell’ambito delle relazioni affettive, a prescindere che queste forme si concretizzino con violenza fisica. Il reato di atti persecutori, al pari di quello di maltrattamenti, rientra a pieno titolo in tale categoria.

Da tale assunto, e dalla disamina del caso concreto, è possibile derivare il principio per cui «La disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p., che impone al pubblico ministero la comunicazione della richiesta di archiviazione all’offeso di particolari delitti commessi «con violenza alla persona», è applicabile anche ai reati di atti persecutori (612 bis c.p.) e di maltrattamenti in famiglia (572c.p.), sulla scorta di un’interpretazione estensiva del concetto de qua come previsto dal diritto sovrannazionale e comunitario.

L’ampliamento del termine ricomprende anche quello di «violenza di genere» che non necessariamente si estrinseca in atti fisici e materiali. L’omissione dell’avviso predetto determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione, impugnabile con ricorso per cassazione».

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Avv. Giorgio Crepaldi

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Rovigo. È cultore della materia in Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Ferrara.

È configurabile il reato di frode nell’esercizio del commercio, previsto e punito dall’art. 515 c.p., qualora si riscontri la diversa composizione del vino detenuto per il commercio rispetto a quanto indicato nelle etichette apposte sul resto delle bottiglie.

Il fatto

Ad un produttore di vino è stato sequestrato un ingente carico di bottiglie di vino e di etichette, destinato al mercato danese.

Dalle indagini effettuate, infatti, è emerso che in quelle bottiglie non fossero presenti le uve corvina, croatina e rondinella, contrariamente a quanto risultante dalle indicazioni presenti sulle etichette apposte sul retro delle bottiglie relativamente alla composizione del vino.

I consumatori sarebbero stati tratti in inganno sulle caratteristiche di provenienza dei vini, aventi una composizione differente rispetto a quella riportata sulle etichette.

Il Tribunale di Verona ha ascritto al produttore il reato di contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, ex art. 517 quater c.p..

L’imprenditore ha promosso ricorso per cassazione avverso il diniego di riesame del decreto di sequestro preventivo perché i fatti contestati non avrebbero potuto rientrare nella predetta norma incriminatrice. Il prodotto sequestrato, infatti, sarebbe privo di IGP e DOC.

La pronuncia

Con la sentenza n. 2354, pubblicata il 23 marzo 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

Nonostante la non configurabilità, nel caso di specie, del reato di cui all’art. 517 quater c.p. (il quale sarebbe integrato da condotte di contraffazione o alterazione dei segni distintivi di origine geografica e da quelle di introduzione nel territorio dello Stato, detenzione per la vendita, offerta in vendita diretta ai consumatori e messa in circolazione dei prodotti con segni mendaci), la fattispecie concreta è di certo riconducibile al tentativo di frode nell’esercizio del commercio, previsto e punito dall’art. 515 c.p..

Di conseguenza, il sequestro è comunque legittimo, essendo potere del giudice cautelare la riqualificazione del fatto di reato.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Con la sentenza n. 6281/2019, pubblicata l’8 febbraio 2019, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha precisato che il reato di atti osceni in luogo pubblico, depenalizzato dal D. Lgs. n. 8/2016, sussiste ancora per l’ipotesi di atti commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori, qualora derivi il pericolo che essi vi assistano.

Il fatto

Nel luglio del 2018, un uomo è stato visto masturbarsi in un parco da alcuni passanti, i quali hanno informato un maresciallo di Polizia Locale, che è intervenuto sul posto.

L’uomo è stato tempestivamente identificato ed è stato accertato che a poca distanza molti bambini stavano giocando nel parco.

Dapprima il Tribunale di Tivoli e, in seguito, il Tribunale della libertà di Roma hanno contestato nei suoi confronti il reato di atti osceni, di cui all’art. 527 co. 2 c.p., e hanno disposto la misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, ritenendo insussistenti i gravi indizi di colpevolezza.

La pronuncia

Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso perché infondato.

I giudici di merito, infatti, hanno correttamente valutato la gravità indiziaria.

Hanno ritenuto, in primo luogo, ininfluente la durata degli atti e, secondariamente, hanno tenuto conto della contestazione personale visiva effettuata dall’ufficiale di polizia giudiziaria. Infine, hanno giudicato irrilevante la circostanza secondo la quale l’uomo non fosse completamente nudo.

Inoltre, per pacifica giurisprudenza, il parco pubblico è valutato un luogo abitualmente frequentato da minori, cioè “un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico” e, nel caso di specie, il pericolo concreto è integrato dal fatto che effettivamente molti minori stavano giocando nel parco, i quali avrebbero potuto notare gli atti compiuti dall’uomo.

Studio Legale Damoli

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Con la sentenza n. 2905/2019, pubblicata il 22 gennaio 2019, la Quinta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha confermato la condanna nei confronti di un uomo per essere entrato senza autorizzazione nell’account Facebook della moglie.

Il fatto

Un signore ha fatto accesso al profilo del noto social network della consorte, utilizzando il nome utente e la password comunicatele dalla stessa molto tempo prima.

Così facendo, ha scoperto una chat intrattenuta dalla coniuge con un altro uomo, l’ha fotografata e ha cambiato la password d’accesso.

In seguito, ha utilizzato le schermate riproducenti quelle conversazioni nel giudizio di separazione personale.

Dapprima il Tribunale di Palermo e, in secondo grado, la Corte d’Appello della medesima città, hanno condannato il marito per il reato di cui all’art. 615 ter c.p., “accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico“, per aver violato la privacy della moglie senza la sua autorizzazione.

L’imputato ha proposto, quindi, ricorso per cassazione, lamentando la non applicabilità al caso di specie della norma predetta, essendo la password stata comunicata al compagno dalla stessa consorte.

La pronuncia

I giudici del Palazzaccio hanno dichiarato inammissibile il ricorso.

La circostanza che la coniuge avesse fornito le credenziali del proprio account social al marito, realizzando così un’implicita autorizzazione verso lo stesso, non ha escluso il carattere abusivo degli accessi.

Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi“.

Studio Legale Damoli

Cass_2905_2019