Il TAR BRESCIA, sezione II, con la sentenza n. 426, depositata in data 2 Maggio 2019, ha stabilito che l’amministrazione è obbligata a restituire al privato le somme da lui corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, qualora lo stesso rinunci o non utilizzi il permesso di costruire rilasciato.

Il fatto

La ricorrente pagava al Comune gli importi dovuti a seguito del rilascio del Permesso di Costruire per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.

La stessa poi rinunciava ad eseguire i lavori autorizzati dal titolo e presentava richiesta di rimborso degli oneri corrisposti, senza ottenere alcun riscontro dal Comune, che pertanto veniva convenuto in giudizio.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della Sezione il contributo concessorio è strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio, pertanto qualora ciò non si verifichi il relativo pagamento è privo della causa dell’originaria obbligazione di dare e il privato ha diritto alla restituzione di quanto versato per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.

Il diritto alla restituzione sorge sia nel caso che la mancata realizzazione delle opere sia totale, sia quando il permesso di costruire sia stato utilizzato parzialmente.

Nel caso di specie la società ha rinunciato all’esecuzione delle opere autorizzate e per tale motivo non ha comunicato l’inizio dei lavori, presentando una richiesta di rimborso degli oneri corrisposti all’amministrazione competente.

Il TAR ha accolto il ricorso e condannato il Comune alla restituzione degli importi dovuti a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione. 

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Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

Le buste paga rappresentano la copia di competenza del lavoratore del libro unico del lavoro. Esse fanno piena prova nei confronti del datore di lavoro e costituiscono una confessione stragiudiziale dello stesso, di cui il giudice deve necessariamente tenere conto.

Il fatto

Il Giudice delegato al fallimento di una società non ha ammesso il credito vantato da un lavoratore subordinato, perché non avrebbe fornito una prova sufficiente.

All’esito del conseguente giudizio di opposizione allo stato passivo, il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, ha riconosciuto solo parzialmente il credito del dipendente.

Quest’ultimo, allora, ha promosso ricorso per cassazione, ritenendo che le buste paga avrebbero di per sé dimostrato la sussistenza del rapporto e dei diritti vantati dal dipendente.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo fondato e ha, dunque, accolto il ricorso.

Secondo gli Ermellini, le buste paga consegnate ai dipendenti costituiscono dei documenti esattamente corrispondenti nel loro contenuto alle scritture che li riguardano all’interno del libro unico del lavoro.

Le copie delle stesse rilasciate dal datore di lavoro ai dipendenti, dunque, hanno piena efficacia probatoria del credito che questi ultimi intendono insinuare al passivo della procedura fallimentare riguardante il medesimo datore.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il Tribunale di Udine, con sentenza 1242/2018, in una controversia opponente un appaltatore e una pubblica amministrazione appaltatrice in materia di esecuzione di un appalto pubblico, si è espresso sul lanoso problema della giurisdizione.

Il fatto

È noto, infatti, che a più riprese sia posta la necessità di comprendere dove debba essere individuato lo spartiacque tra la giurisdizione del giudice ordinario e la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai contratti d’appalto e concessione pubblici.

Spesso la giurisprudenza ha posto tale confine individuando il momento fondativo della giurisdizione ordinaria nella stipula del contratto e, pertanto, in una fase a valle delle operazioni di gara.

Il caso di specie era, tuttavia, particolare giacché il contratto non era mai stato sottoscritto.

La pronuncia

Il Tribunale ha fissato tale regula iuris: in materia di appalti di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sole controversie relative alle procedure di affidamento dei lavori, che si concludono con l’aggiudicazione.

Ogni controversia derivante dall’esecuzione del contratto nascente da condotte ascrivibili alla P.A. o alla parte privata, nella fase di espletamento del servizio oggetto della procedura d’evidenza pubblica, seppur precedente la stipulazione del contratto, è devoluta alla giurisdizione ordinaria.

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

La Corte di Cassazione, Sezione Quinta penale, con sentenza n. 20527/19, depositata il 13 maggio 2019, ha affrontato il delicato aspetto della privacy e del concetto di sicurezza.

Il fatto

Il reato ascritto agli imputati è quello di violenza privata, disciplinato dall’art. 610 c.p.

Coloro che hanno installato le telecamere hanno obbligato gli abitanti del quartiere a cambiare lo stile di vita, limitando la libertà di movimento, poichè sul muro della propria abitazione avevano montato una telecamera che punta sul passaggio pubblico.

Le videoriprese, dove sono ben note e riconoscibili le persone, comportano un trattamento di dati personali.

La pronuncia 

Per cui, se il soggetto privato vuole tenere sotto controllo le aree limitrofe alla propria abitazione, deve obbligatoriamente applicare il cartello di informazione, per far capire ai passanti che la zona è videosorvegliata.

Quindi, tale attività di registrazione potrà essere effettuata anche senza il consenso degli interessati.

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Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Sostare nel parcheggio riservato alle vetture di servizio per persone invalide, senza esporre l’idoneo contrassegno invalidi rilasciato dal Comune, è vietato a norma dell’art. 158, co. 2, lett. g), del Codice della Strada ed è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 41 a € 168, per i ciclomotori e i motoveicoli a due ruote, e da € 87 a € 345, per i restanti veicoli.

Il fatto

La Polizia Municipale di La Spezia ha contestato ad un cittadino la violazione dell’art. 158 del Codice della Strada, per aver sostato in area destinata agli invalidi senza esporre il contrassegno autorizzativo.

Sia il Giudice di Pace, in primo grado, sia il Tribunale, quale giudice dell’appello, hanno respinto l’opposizione proposta dal cittadino, il quale ha, di seguito, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12625, pubblicata il 13 maggio 2019, ha respinto il ricorso, perché infondato.

La mancata esposizione del predetto contrassegno, infatti, equivale a l’esserne sforniti. Non sarebbe, infatti, altrimenti possibile stabilire se il veicolo sia al servizio di un portatore di handicap.

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il mancato stabilimento nei termini di legge della residenza nel Comune in cui è ubicato l’immobile acquistato non comporta la decadenza dell’agevolazione “prima casa”, qualora sopraggiunga un evento dovuto a cause di forza maggiore, sopravvenute rispetto alla stipula dell’acquisto e non prevedibili dal contribuente.

Il fatto

L’Agenzia delle Entrate ha notificato ad un contribuente un avviso di liquidazione d’imposta ed irrogazione sanzione, per decadenza dal beneficio delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa, perché lo stesso non aveva trasferito la propria residenza nel Comune in cui era ubicato l’immobile acquistato entro 18 mesi dal rogito.

Dapprima, la Commissione Tributaria Provinciale di Varese ha accolto il ricorso del contribuente, annullando il provvedimento dal medesimo impugnato.

In seguito, tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia, ritenendo fondate le ragioni di quest’ultima.

Il cittadino, dunque, ha promosso ricorso per cassazione, in quanto egli non sarebbe riuscito a trasferire la residenza nel termine previsto di 18 mesi dall’acquisto dell’immobile per una causa di forza maggiore, essendo l’immobile occupato. La residenza sarebbe stata poi, invece, trasferita entro i 18 mesi decorrenti dalla data di liberazione dell’edificio stesso.

La pronuncia

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo fondato e ha, dunque, accolto il ricorso.

Per la fruizione dei benefici “prima casa”, previsti in caso di acquisto di immobile in altro Comune, l’acquirente deve trasferirvi la residenza entro 18 mesi dal rogito.

Occorre, tuttavia, tener conto della sussistenza di eventuali ostacoli.

Allora, se il mancato trasferimento nei termini di legge è dovuto a cause di forza maggiore, non prevedibili, il contribuente non decade dalla possibilità di usufruire dell’agevolazione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

Il TAR Toscana, con la sentenza n. 507, depositata in data 05 aprile 2019, ha affermato che non esiste un’incompatibilità assoluta tra la destinazione agricola di un’area e la sua utilizzazione a parcheggio, perché tale destinazione non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva di tale area, salvo non ci siano particolari prescrizioni di carattere ambientale/paesaggistico.

Il fatto

I ricorrenti impugnavano l’ordinanza del Comune di Empoli che disponeva la demolizione di alcune opere, tra cui aree di parcheggio realizzate in area a destinazione agricola in assenza del permesso di costruire o in difformità dallo stesso.

Nei motivi aggiunti i ricorrenti contestavano il diniego di sanatoria rilevando che non si trattava di trasformazione permanente di terreno edificato e che, l’art. 78 RUC, ammetteva la “manutenzione degli esistenti elementi viari e spazi di sosta per i mezzi di trasporto motorizzato”.

Il Comune resisteva in giudizio anche ai motivi aggiunti.

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della sezione non sussiste un’incompatibilità assoluta tra la destinazione agricola di un’area e la sua utilizzazione a parcheggio, perché la destinazione a zona agricola di un’area avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali, non costituisce ostacolo all’installazione di opere che non riguardino l’edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone densamente abitate.

Nel caso di specie non risulta provato che vi sia stata una rilevante e significativa modificazione dei luoghi, con opere che possano essere considerate incompatibili con la destinazione stessa e pertanto un’area a destinazione agricola può essere utilizzata come parcheggio.

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Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

La disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p., che impone al pubblico ministero la comunicazione della richiesta di archiviazione all’offeso di particolari delitti commessi «con violenza alla persona», è applicabile anche ai reati di atti persecutori (612 bis c.p.) e di maltrattamenti in famiglia (572c.p.), sulla scorta di un’interpretazione estensiva del concetto de qua come previsto dal diritto sovrannazionale e comunitario. L’ampliamento del termine ricomprende anche quello di «violenza di genere» che non necessariamente si estrinseca in atti fisici e materiali. L’omissione dell’avviso predetto determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione, impugnabile con ricorso per Cassazione.

Il fatto

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, concordando con la richiesta formulata dall’organo dell’accusa, disponeva l’archiviazione del procedimento a carico di C.A., a seguito di presentazione di denuncia-querela da parte di F.M.C., per i reati previsti e puniti ex art. 612 bis c.p. e 594 c.p. Il difensore della persona offesa deduceva in Cassazione la violazione dell’art. 408, comma 3 bis, c.p.p. per ommessa comunicazione alla vittima della richiesta stessa. La difesa della persona offesa rappresentava come, pur avendo appreso del procedimento a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari alla propria assistita, non fosse stata data comunicazione della richiesta di archiviazione formulata dal P.M., con conseguente violazione dei principi partecipativi e del contradditorio.

La pronuncia

Il ricorso per Cassazione aveva ad oggetto la violazione della disposizione di cui al comma 3 bis dell’art. 408 c.p.p. nella parte in cui prevedeva la notifica obbligatoria dell’avviso della richiesta di archiviazione in tutti i casi di «delitti commessi con violenza alla persona», a prescindere dalla richiesta della persona offesa (che nel caso di specie non era stata formulata). Secondo la vittima, la fattispecie di stalking, di cui all’art. 612 c.p., deve senza dubbio ritenersi incluso nel novero di tali particolari fattispecie.

Le S.U. danno conto di un contrasto tra orientamenti in tema di applicabilità del comma sopracitato. Oltre all’interpretazione operata dal ricorrente, difatti, ne sussisteva una contrastante che vedrebbe, per la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., la non obbligatorietà di dare comunicazione della richiesta di archiviazione, se non espressamente indicata dal querelante.

Tale impostazione fondava sul raffronto con l’obbligo comunicativo dell’avviso ex 415 bis c.p.p. che, a differenza di quello ex 408 c.p.p., espressamente richiamava la fattispecie degli atti persecutori tra quelle che imponevano la comunicazione alla persona offesa dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

I giudici romani davano conto, inoltre, di come la questione riguardasse anche l’aspetto sostanziale circa la locuzione «violenza alla persona», interrogandosi se questa comprendesse solamente i casi di violenza fisica o anche alle ipotesi di violenza morale o psicologica.

L’ avviso obbligatorio alla vittima di reati commessi con violenza alla persona, ex 408, comma 3-bis, c.p.p. ha lo scopo di ampliare i diritti di partecipazione della stessa al procedimento penale. Dalle direzioni sovranazionali e comunitarie, che devono intendersi quale chiaro strumento interpretativo del nostro diritto, si evince come la ratio dell’istituto sia quello di dare specifica protezione alle vittime della violenza di genere, perpetuata contro le donne o come violenza domestica.

Il reato di stalking, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, rappresenta una delle espressioni di maggior aggressione alla sfera intima e fisica della persona offesa. Il percorso legislativo stesso che introduce la locuzione «delitti commessi con violenza alla persona» testimonia la volontà del legislatore di estendere il concetto a nozioni di violenza proprie dell’ambito internazionale e comunitario tra cui la violenza di genere, contro le donne e nell’ambito delle relazioni affettive, a prescindere che queste forme si concretizzino con violenza fisica. Il reato di atti persecutori, al pari di quello di maltrattamenti, rientra a pieno titolo in tale categoria.

Da tale assunto, e dalla disamina del caso concreto, è possibile derivare il principio per cui «La disposizione dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p., che impone al pubblico ministero la comunicazione della richiesta di archiviazione all’offeso di particolari delitti commessi «con violenza alla persona», è applicabile anche ai reati di atti persecutori (612 bis c.p.) e di maltrattamenti in famiglia (572c.p.), sulla scorta di un’interpretazione estensiva del concetto de qua come previsto dal diritto sovrannazionale e comunitario.

L’ampliamento del termine ricomprende anche quello di «violenza di genere» che non necessariamente si estrinseca in atti fisici e materiali. L’omissione dell’avviso predetto determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127, comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione, impugnabile con ricorso per cassazione».

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Avv. Giorgio Crepaldi

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Rovigo. È cultore della materia in Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Ferrara.

La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11844, depositata in data 6 Maggio 2019, ha ritenuto che la madre perda il diritto all’assegnazione della casa familiare qualora la figlia si trasferisca all’estero, anche se fa ritorno a casa con frequenza, perché viene a instaurarsi un rapporto di mera ospitalità.

Il fatto

La madre proponeva ricorso avverso il decreto della Corte D’Appello di Venezia di rigetto del reclamo avverso la decisione del Tribunale di I grado che riduceva l’ammontare del contributo mensile a carico del padre per il mantenimento della figlia maggiorenne e revocava l’assegnazione della casa familiare, in considerazione del trasferimento della figlia all’estero

La pronuncia

Secondo la giurisprudenza della Corte la nozione di convivenza, rilevante agli effetti dell’assegnazione della casa familiare, comporta la stabile dimora del figlio presso l’abitazione di uno dei genitori con eventuali e sporadici allontanamenti per brevi periodi per motivi di studio/lavoro, con esclusione del ritorno a casa per i soli week-end perché si configurerebbe un rapporto di mera ospitalità.

Nel caso di specie la figlia maggiorenne si è recata con una certa frequenza presso l’abitazione materna, ma ha voluto trasferire all’estero il centro delle proprie attività ed interessi, facendo venire meno un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, necessario perché non venga revocata l’assegnazione della casa familiare.

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Dott. Marcello Orlandino

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio. Si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e diritto civile.

 

 

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, nell’ordinanza 11129/19, depositata il 19 aprile, ha affermato che al momento del decesso dell’ex coniuge, il superstite ha diritto al riconoscimento della pensione di reversibilità, o una quota di essa, solo se è titolare di un assegno divorzile.

Il fatto

Una donna, rimasta vedova, ha fatto domanda per vedersi riconosciuta la pensione di reversibilità del marito dal quale aveva divorziato.

L’assegno divorzile deve essere riconosciuto dal Tribunale con sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Il Tribunale ha respinto la domanda sul rilievo che l’assegno stabilito in sede di separazione, di natura alimentare e fondato sul presupposto della permanenza del vincolo coniugale, non poteva continuare una volta dichiarata la cessazione degli effetti del matrimonio.

La Corte territoriale ha confermato quanto statuito dal Tribunale.

La pronuncia 

I motivi di impugnazione che sono stati sollevati dalla donna sono stati ritenuti infondati dalla Suprema Corte di Cassazione.

La Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla donna e ha condannato la stessa al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del contro ricorrente.

nessuna pensione di reversibilità se no titolari di assegno di divorzio

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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