La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3133 del 1° febbraio 2019, ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, a mezza della quale si escludeva l’illegittimità del licenziamento per giusta causa nei confronti di una segretaria, la quale accedeva reiteratamente ad internet, in particolare al social network Facebook, durante l’orario di lavoro.

Il fatto

Parte appellante, segretaria a tempo part-time presso uno studio medico, impugnava la sentenza di primo grado, assumendo che il licenziamento intimato avesse carattere ritorsivo in quanto successivo alla richiesta di fruizione dei permessi legge n. 104/2012 e che il datore avesse violato le norme sulla riservatezza.

Il Collegio del gravame respingeva tali assunti difensivi, affermando che il grave contegno della dipendente risulta “in contrasto con l’etica comune” e che le contestazioni promosse dal datore di lavoro non violavano le norme sulla privacy, dato che egli si era limitato a computare le violazioni tramite la cronologia del PC, senza entrare nel merito dei contenti della navigazione.

L’ex segretaria depositava ricorso per cassazione con due motivi.

La pronuncia

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso per cassazione, motivando la propria decisione con argomenti di carattere processuale, nello specifico per difetto dei principi di specificità, di non contestazione nei precedenti gradi del giudizio e d’utilità (artt. 187 c.p.c. e 209 c.p.c.).

Confermando la statuizione della Corte d’Appello di Brescia, la Corte di legittimità ha affermato che “la condotta tenuta dalla lavoratrice, per come emersa sulla base degli elementi acquisiti – vale a dire 6.000 accessi ad Internet estranei all’ambito lavorativo, di cui 4.500 a Facebook, nel corso di 18 mesi, con il pc aziendale durante l’orario di lavoro, tra l’altro part-time, integra la violazione degli obblighi di diligenza e di buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa e non può, dunque, ritenersi di per sé legittima“.

Inoltre, continua la Corte di Cassazione, gli accessi alla pagina personale di Facebook risultano riferibili con certezza alla segretaria perché richiedono una password personale, conoscibile solamente dalla ricorrente stessa.

Ne deriva la legittimità del licenziamento comminato per giusta causa, in quanto il contegno della dipendente risulta di particolare gravità, in contrasto con l’etica comune, che si riflette negativamente sul rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.

Cassazione n. 3133-2019

Dott. Dusko Kukic

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, con la tesi finale in diritto del lavoro, “il potere di controllo sul prestatore di lavoro”, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa prevalentemente di diritto del lavoro.

I gravi motivi, previsti dalla legge per recedere in qualsiasi momento da un contratto di locazione di immobili adibiti ad uso commerciale, devono essere fatti estranei alla volontà del conduttore e devono essere imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendergli eccessivamente gravosa la sua prosecuzione.

Il fatto

Un’impresa in crisi finanziaria ha rinegoziato con il proprietario dei propri locali commerciali le condizioni economiche del contratto di locazione.

Non riuscendo, però, a risanare la situazione di indebitamento, ha comunicato al locatore il recesso anticipato dal contratto di locazione, con un preavviso di sei mesi.

Quest’ultimo, per contro, ha chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Padova un decreto con il quale è stato ingiunto all’impresa il pagamento dei canoni scaduti relativi al periodo successivo alla liberazione dell’immobile da parte del conduttore.

L’azienda si è opposta a detto provvedimento, chiedendo l’accertamento della legittimità del recesso anticipato dal contratto di locazione, stante la sussistenza dei gravi motivi previsti dall’art. 27 della L. 392/1978.

I giudici di merito, sia in primo grado sia in appello, hanno rigettato le richieste del conduttore.

L’impresa ha quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Gli Ermellini, con la sentenza n. 5803, pubblicata il 28 febbraio 2019, hanno accolto i motivi dell’azienda e, quindi, hanno dichiarato che nulla è dovuto al proprietario dei locali.

Secondo l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, “i comportamenti determinati da fatti estranei alla volontà dell’impresa, imprevedibili alla costituzione del rapporto e sopravvenuti ad esso, pur essendo volontari in quanto volti a perseguire un adeguamento strutturale dell’azienda, possono integrare i gravi motivi posti a base del recesso anticipato“.

Al fine di valutare lo stato di crisi finanziaria, inoltre, qualora il locatore svolga la propria attività in diversi rami d’azienda, per i quali utilizzi distinti immobili, i gravi motivi devono essere accertati in relazione all’attività svolta nei locali per cui è richiesto il recesso. Il locatore è legittimato, per contro, ad opporre i risultati positivi registrati negli altri rami aziendali.

Cass_5803_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Cassazione, con ordinanza n. 7618, depositata il 18 marzo 2019, ha affermato che è un abuso parcheggiare, anche per pochi minuti, il proprio motoveicolo nel cortile del condominio per violazione del principio dell’uso della cosa comune.

Il fatto

Due signori, rispettivi proprietari di due appartamenti del medesimo stabile condominiale, sono soliti parcheggiare i propri motoveicoli nel cortile del palazzo e, nello specifico, in prossimità dell’appartamento di un terzo condomino.

Quest’ultimo si è rivolto al Tribunale affinché fosse dichiarata la limitazione dell’accesso nel cortile condominiale dei motoveicoli.

Sia in primo grado che in Corte d’Appello, la domanda è stata accolta perché l’abitudine di due soli condomini ha impedito a tutti gli altri di godere delle parti comuni dell’edificio.

È stata considerata irrilevante, inoltre, la saltuarietà delle soste, in quanto non è stata esclusa la lunga durata delle medesime.

La pronuncia

I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno ritenuto corretta la visione dei giudici di merito.

In particolare, hanno affermato che “la sosta dei mezzi meccanici nel cortile comune ne pregiudica la transitabilità, sì da impedire od ostacolare l’accesso all’unità immobiliare del singolo condomino“.

Con tale inciso, la Corte ha inteso confermare l’avvenuto abuso dell’utilizzo del cortile condominiale, poiché gli altri condomini non hanno potuto godere del libero e pacifico godimento del piazzale.

Di conseguenza, anche l’occupazione per breve tempo del cortile è considerato un abuso, ove non permetta a tutti i condomini di godere del proprio diritto di comproprietà sulla parte comune.

Moto parcheggiate nel cortile

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Corte d’Appello di Venezia si è espressa in merito ad un caso riguardante il reato di turbativa d’asta, di cui all’art. 353 c.p., con la sentenza n. 1321/2017. Il giudice di secondo grado, nell’assolvere gli imputati, ha fissato alcuni interessanti principi in materia di prova del reato in analisi che, come noto, presenta quale elemento costitutivo la così detta “combine”. La vicenda trae origine da una sentenza di condanna, emessa in primo grado, a carico di tre imprenditori per aver turbato, mediante collusione tra loro, l’esito di una procedura d’evidenza pubblica.

Il fatto

Il giudice di primo grado aveva valorizzato alcuni elementi fattuali per dimostrare che le diverse offerte provenissero, in realtà, da un unico centro d’interesse e potessero dirsi, a priori, concordate.

Tra questi elementi spiccava che in una diversa e precedente procedura d’evidenza pubblica due delle società avessero costituito un’associazione temporanea d’imprese.

Ciò poteva dirsi, ex se, bastevole per provare che nella diversa e successiva gara gli imprenditori avessero assunto, solo formalmente, la veste di concorrenti e avversari.

Inoltre, un ulteriore elemento corroborava l’ipotesi imputativa ex art. 353 c.p.; due degli imputati avevano ricoperto la carica di consiglieri in un organo direttivo di uno stesso ente associativo e, pertanto, avevano chiaramente fitte cointeressenze tra loro.

Impugnata la sentenza di primo grado, i difensori degli imputati criticavano le conclusioni del giudice di prime cure contestando che l’esistenza dell’accordo collusivo non potesse fondarsi su elementi fattuali privi di riscontro e, comunque, mancanti dei requisiti di cui all’art. 192 c.p.p.

Di particolare interesse è che i difensori abbiano impugnato la sentenza mettendo in evidenza che la precedente partecipazione ad una gara indetta da diversa amministrazione, nelle forme dell’associazione temporanea d’imprese, non potesse giovare alle tesi accusatorie. Invero, era da escludersi che la prova dell’unicità del centro decisionale si potesse ricavare, anche solo in via presuntiva,  sfruttando un istituto perfettamente lecito in quanto previsto dal Codice degli Appalti.

A ciò doveva aggiungersi che nulla vietava a due imprese, per ragioni economiche e di convenienza, di partecipare in ATI ad una determinata procedura e affrontarsi da avversarie in un’altra.

I difensori degli imputati ribadivano anche un ulteriore aspetto assolutamente condivisibile. L’eventuale collegamento sostanziale tra imprese non forma un autonomo elemento da cui trarre la prova del reato in parola poiché sempre s’impone la prova del fatto, fondata su elementi univoci, che le offerte provengano da un unico centro decisionale.

La pronuncia

Il principio affermato dal giudice dell’impugnazione è il seguente: la formazione di un’associazione temporanea d’imprese in una gara precedente a quella dove si sarebbe consumato il reato cui all’art. 353 c.p., essendo una pratica assolutamente lecita, non può di per sé assurgere a prova della turbativa d’asta. Inoltre, l’aver ricoperto entrambi una identica carica sociale in uno stesso ente associativo non prova la sussistenza di fitte cointeressenze tra imprenditori, giacché elementi quali il conoscersi e frequentare gli stessi ambienti sono dati di fatto penalmente irrilevanti ex art. 353 c.p..

Sulla base di tali presupposti gli imputati sono stati assolti “perché il fatto non sussiste”.

Turbativa

Avv. Federico Tosi

Laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano e in Diritto Belga presso l’Université Catholique de Louvain-la-Neuve. Ha conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Bari ed è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Bari. Si occupa di Diritto Civile e di Diritto dello Sport.

La Seconda Sezione del Tribunale di Perugia ha depositato, in data 17 dicembre 2018, la sentenza n. 1677, affermando che, in caso di danni cagionati da fauna selvatica, il danneggiato ha l’onere di provare gli elementi del fatto illecito e di individuare il comportamento colposo dell’Ente pubblico.

Il fatto

Un motociclista, nell’imboccare una curva, è stato investito da un capriolo, il quale ha invaso la carreggiata non permettendo alcuna possibilità di sterzata o frenata al soggetto.

I danni allo scooter sono stati quantificati in € 3.175,68 e, il motociclista, ha sostenuto di aver riportato danni per € 100.000,00.

Lo stesso, ha affermato che la responsabilità del danno fosse attribuibile alla Regione, la quale avrebbe dovuto controllare e gestire la fauna selvatica, violando gli obblighi previsti dalla Legge n. 157/2011, per non aver censito, in modo periodico, gli animali selvatici.

La pronuncia

Secondo il Tribunale, il profilo di colpa ascrivibile alla Regione riguardo al censimento degli animali selvatici, risulta assolutamente generica.

Inoltre, lungo la strada percorsa dal motociclista, vi erano cartelli di pericolo per l’attraversamento di animali selvatici con il limite di velocità di 70 km/h.

In conclusione, è stata rigettata la domanda proposta dal soggetto contro la Regione per insussistenza dei presupposti previsti dall’art. 2043 c.c..

Fauna selvatica danno cagionato

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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Oggigiorno è, purtroppo, solito sentire tra i fatti di cronaca di relazioni sentimentali o coniugali che, una volta terminate, sfociano in una serie di comportamenti (minacce, sms ossessivi, pedinamenti, telefonate, etc.) posti in essere dal partner che non si rassegna alla rottura del rapporto, i quali configurano il reato di atti persecutori, previsto e punito dall’art. 612 bis c.p., che la letteratura scientifica identifica con il termine stalking (cfr. FIANDACA G., MUSCO E., Diritto penale. Parte speciale Vol. II – tomo I: I delitti contro la persona, 3^ed., Zanichelli, Bologna, 2011).

La Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente sul rapporto tra questo delitto e l’applicazione delle misure cautelari.

Il fatto

Con ordinanza del 17 ottobre 2017, il Tribunale del Riesame di Roma ha confermato il provvedimento del 29 settembre 2017 con il quale il GIP del Tribunale di Roma ha applicato nei confronti di un uomo la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dall’ex moglie, per condotte a lui ascrivibili in relazione all’imputazione provvisoria di atti persecutori in danno della stessa, minacciata e molestata a mezzo telefono, Fb e whatsapp.

Avverso tale ordinanza l’ex marito ha proposto ricorso in Cassazione, evidenziando che le minacce a lui ascritte non si sono mai concretizzate e che, comunque, si è trattato di un solo episodio isolato ancor prima dell’applicazione della misura cautelare.

La pronuncia

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21693 pubblicata il 16 maggio 2018, ha dichiarato il ricorso non ammissibile.

Il giudice del riesame, infatti, ha correttamente sottolineato la gravità di due messaggi minacciosi, inviati dall’uomo all’ex coniuge, idonei ad evidenziare come le condotte poste in essere dallo stesso avessero causato nella persona offesa un fondato timore, tale da determinare “in una persona comune” un effetto destabilizzante (Sez. 5, n. 24135/12, Rv. 253764; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 17795/17, Rv. 269621).

Le misure adottate, pertanto, sono risultate pienamente adeguate.

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Dott. Tommaso Carmagnani

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto civile, con maggior riguardo al diritto di famiglia.

Con sentenza n. 40482 del 12 settembre 2018, la V sezione penale della Corte di Cassazione ha riaffermato, in conformità con orientamento unanime, che il delitto di violenza privata viene integrato dall’esercizio di una coazione sulla volontà della persona offesa qualunque sia il mezzo utilizzato per incidere sulla libertà di autodeterminazione della vittima.

Il fatto

Il ricorrente veniva condannato dalla Corte d’Appello di Trieste per il delitto di violenza privata di cui all’art. 610 c.p..

Lo stesso, infatti, affermava di vantare un diritto di servitù di passaggio attraverso il fondo attiguo alla sua proprietà e, pertanto, vi transitava di continuo anche senza il consenso del vicino proprietario.

Quest’ultimo, al fine di limitare il traffico, si decideva a chiudere il cancello posto a delimitazione delle due proprietà, considerato anche il fatto che il proprio vicino godeva di un ulteriore accesso alla pubblica via.

Tuttavia, non condividendo il rifiuto oppostogli, il ricorrente impediva la chiusura del cancello, parcheggiando ripetutamente la propria automobile e frapponendosi egli stesso nella traiettoria della cancellata, motivo per il quale veniva condannato nei primi due gradi di giudizio.

La pronuncia

Con i motivi a supporto dell’impugnazione veniva contestato, in particolare, come i fatti oggetto del procedimento non potessero essere ricondotti alla categoria dei comportamenti “violenti”, traducendosi più che altro in comportamenti di carattere passivo, perciò non idonei ad integrare una vera e propria violenza privata.

Il Collegio rigettava il ricorso, sostenendo, in armonia con l’unanime interpretazione rinvenuta in giurisprudenza, che l’elemento della violenza si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza definita “impropria”, attuata cioè mediante l’uso di mezzi anomali che siano diretti ad esercitare pressioni sulla libertà altrui.

A titolo esemplificativo, il Collegio elencava alcune precedenti decisioni che, sulla base del medesimo principio, avevano esteso l’ambito di applicazione del delitto di violenza privata alle condotte:

  • di colui che occupi il parcheggio riservato ad una persona invalida (cfr. Corte di Cassazione, sez. V penale, sent. 17794/2017);

  • di chi parcheggia la propria vettura dinanzi ad un fabbricato in modo da bloccare il passaggio (cfr. Corte di Cassazione, sez. V penale, sent. 8425/2013);

  • del partecipante ad una manifestazione di protesta che impedisca agli operai di svolgere i lavori previsti per l’esecuzione di un’opera pubblica, ponendo in essere comportamenti idonei a bloccare l’utilizzo dei macchinari (cfr. Corte di Cassazione, Sez. V penale, sent. n. 48369/2017).

In conclusione, il delitto di violenza privata deve ritenersi integrato da qualsiasi coazione esercitata sulla persona offesa idonea a incidere sulla sua libertà di autodeterminazione, qualunque sia il mezzo utilizzato purché idoneo allo scopo.

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Dott. Enrico Pomarici

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Trento nel 2016, è iscritto all’Ordine degli Avvocati di Verona, nel Registro dei Praticanti abilitati al patrocinio sostitutivo. Si occupa di diritto penale.

Nel caso di acquisto di un bene immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente è condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione.

Oltre al concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, occorre l’effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione della comunione elencate all’art. 179, co. 1, lett. c), d) ed f), c.c..

Il fatto

Due coniugi hanno contratto matrimonio nel 1970.

Nel 1988, la moglie ha acquistato un immobile con denaro personale, prevedendo nell’atto di acquisto che fosse escluso dalla comunione legale.

Nel 2006 è stato dichiarato il fallimento del marito, quale socio unico illimitatamente responsabile di una società in nome collettivo.

Il curatore del fallimento ha trascritto la sentenza di fallimento sull’immobile detto in precedenza, sul presupposto che la partecipazione al contratto del coniuge (formalmente non acquirente) ed il suo assenso all’acquisto personale in favore dell’altro coniuge non fossero elementi sufficienti ad escludere l’acquisto dalla comunione legale.

La proprietaria dell’immobile ha allora citato in giudizio il curatore per ottenere la cancellazione della trascrizione della sentenza di fallimento.

Sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello di Napoli, hanno rigettato le richieste dell’attrice.

Quest’ultima ha, quindi, promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 7027, pubblicata il 12 marzo 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, infatti, “mancando la prova della sussistenza di una delle cause di esclusione  dalla comunione legale di cui all’art. 179 c.c., lett. c), d) ed f), la mera partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di trasferimento e la sua dichiarazione circa la natura dei beni  non comport[a] l’esclusione dei beni medesimi, acquistati in regime di comunione legale, dalla comunione stessa“.

La domanda formulata dalla proprietaria dell’immobile, dunque, avrebbe dovuto essere volta ad accertare la sussistenza dei presupposti di fatto dell’esclusione dei beni dalla comunione, non essendo all’uopo sufficiente la mera dichiarazione contenuta nell’atto di vendita.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

La Sezione quinta, della Corte di Cassazione Penale, ha dichiarato, con la sentenza n. 8736/2018, l’idoneità, dello screenshot, ad essere utilizzato in giudizio come prova documentale, senza necessità di avvalersi della procedura di accertamento tecnico irripetibile.

Il fatto

Il direttore di una testata giornalistica, in primo grado, è stato condannato per diffamazione, poichè ha pubblicato alcuni articoli, offendendo la reputazione di un politico, questo, basato su una prova decisiva costituita da una copia cartacea delle schermate telematiche del sito internet.

Il Giudice dell’appello, ha ritenuto non attendibile la prova documentale dello screenshot, perchè non autenticata da un Notaio, annullando, così, la condanna.

La pronuncia

Proposto ricorso in Cassazione, gli Ermellini hanno confermato le veridicità e la bontà della prova documentale, lo screenshot, precisando che tutti i dati informatici che vi sono in un computer sono prove documentali e non è necessaria alcuna garanzia.

Di talchè, ogni documento acquisito liberamente è utilizzabile, sarà poi il Giudice a valutare l’attendibilità o meno della prova.

La Cassazione ha ricondotto lo screenshot nel novero delle prove documentali disciplinate dall’art. 234 c.p.p., precisando che, in nessun caso, per acquisire determinati dati, è necessario l’accertamento tecnico irripetibile ma può bastare una operazione meccanica che non vada ad alterare il contenuto dei dati.

Scheenshot valido come prova documentale

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 4889/2019, depositata in data 19 febbraio 2019, ha statuito che la giurisdizione in materia di acquisto di immobile abusivo spetta al Giudice Ordinario e non al Giudice Amministrativo.

Il fatto

Un privato ha chiesto il risarcimento danno, ex art. 2043 c.c., al Comune, poiché ha sostenuto che non ha posto in essere la diligenza di vigilare sul rispetto delle prescrizioni urbanistiche nella costruzione di un fabbricato da parte di una Società.

Il ricorrente ha acquistato l’immobile riponendo fiducia nel Comune, con la consapevolezza che lo stesso avesse visionato e controllato la conformità alla legge e alla disciplina urbanistica.

Solo in un secondo momento, il cittadino, ha scoperto che vi erano molteplici irregolarità edilizie ed urbanistiche rendendolo, in parte, abusivo.

Il Giudice del Tribunale, nel giudizio instaurato con la Società, chiamata in giudizio, e il Comune, ha ritenuto che la controversia dovesse essere devoluta al Giudice Amministrativo, poiché collegata all’attività della P.A., quindi, è stato proposto il regolamento preventivo di giurisdizione chiedendo l’autorizzazione del Giudice Ordinario.

Il Comune ha resistito, al contrario della Società che non ha svolto difese.

La pronuncia

La decisione è stata disposta affermando che il problema non riguarda la legittimità dei titoli abitativi relativi alla costruzione della Società, ma riguarda esclusivamente la situazione di diritto soggettivo, ossia l’integrità del patrimonio leso, presuntivamente, dal ricorrente.

Per tale motivo, la decisione è stata fondata sulla non risarcibilità del danno, poiché non riguarda un diritto soggettivo relativo alle materie di esclusiva competenza del Giudice amministrativo.
Di talché, la giurisdizione è del Giudice ordinario.

Avv. Marco Damoli

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Ferrara, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.

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