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Con la sentenza dello scorso 29 marzo, la Corte di Cassazione afferma che il legislatore ha disciplinato in modo autonomo il contratto di leasing, nel solco di quanto già previsto nella legge fallimentare, e non è quindi più ammissibile l’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. in materia di risoluzione della vendita con riserva di proprietà, il quale imponeva al concedente la restituzione dei canoni percepiti fatto salvo il diritto ad un equo compenso per l’utilizzo del bene.

Il fatto

La società Alfa, quale concedente, stipulava con la società Beta, utilizzatrice, un contratto di locazione finanziaria di natura traslativa avente ad oggetto un bene immobile ad uso commerciale.

Nel corso del contratto la società utilizzatrice interrompeva il pagamento dei canoni e la società Alfa le intimava quindi la risoluzione del contratto per inadempimento, chiedendo altresì la restituzione del bene.

In seguito al rilascio spontaneo dell’immobile, la società Beta veniva dichiarata fallita e la società Alfa domandava l’ammissione al passivo fallimentare del credito per le rate non pagate e scadute al momento della risoluzione del contratto, oltre all’importo dovuto per le rate a scadere, dedotto l’importo eventualmente ricavato dalla vendita del bene ovvero quello ad esso attribuito con perizia di stima, il tutto in forza di espressa previsione contrattuale.

Il Giudice Delegato rigettava la domanda di insinuazione al passivo poiché ritenuta incompleta rispetto alle previsioni dell’art. 1526 c.c., la cui disciplina, applicata in via analogica, era considerata inderogabile rispetto alla volontà delle parti.

A seguito del rigetto dell’opposizione allo stato passivo da parte del Tribunale di Mantova, la società Alfa promuoveva ricorso per Cassazione affermando, per quanto qui interessa, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., ritenuto prevalente rispetto alle pattuizioni contrattuali, ed invocando l’applicabilità dello ius superveniens costituito dalla L. n. 124 del 2017, art. 1, commi 136-140, in quanto, in assenza di un puntuale intervento legislativo, la novella ed i principi ispiratori erano applicabili in via analogica anche ai contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore.

La pronuncia

La Corte di Cassazione, dopo aver verificato positivamente l’applicabilità al caso di specie del principio dello ius superveniens, ha dato atto che il contratto di leasing, prima dell’intervento legislativo, era da considerarsi “come contratto atipico o innominato” con riferimento al quale la giurisprudenza aveva elaborato la distinzione tra “leasing di godimento” e “leasing traslativo” ed applicato a quest’ultima tipologia la disciplina prevista per la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà, disciplina considerata inderogabile.

La legge n. 124/2017, in linea con quanto già previsto dalla legge fallimentare, ha invero superato tale distinzione e dato una disciplina organica al contratto in esame, tant’è che la Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore, verificatasi in data anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136 – 140), sono regolati dalla disciplina della L. Fall., art. 72 quater, applicabile anche al caso di risoluzione del contratto avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore.

In caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato.

La vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Sulla base del valore di mercato del bene, come stabilito sulla base della stima su menzionata, sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, pari ai canoni scaduti e non pagati ante-fallimento ed ai canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione.

Eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto“.

Avv. Alessandro Martini

Si laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel novembre del 2011 con una tesi in diritto tributario sulla fiscalità dei nuovi strumenti finanziari partecipativi. Ad ottobre 2012 consegue un master di secondo livello presso l’Alta scuola di studi tributari A. Berliri di Bologna e si iscrive presso l’Ordine degli Avvocati di Trento nel 2017.

Ai sensi dell’art. 2957 c.c., il termine triennale di prescrizione relativo al compenso per l’opera eseguita ed al rimborso delle spese anticipate dai professionisti decorre automaticamente dal compimento della prestazione.

Il fatto

Un avvocato ha svolto attività defensionale giudiziale in favore di un cliente nei confronti di una società fino al 2001, quando il Tribunale di Roma ha accolto la richiesta del primo e riconosciuto il suo diritto di credito nei confronti del secondo.

In seguito, lo stesso procuratore ha svolto, sempre in favore del medesimo cliente, l’attività di recupero forzoso del predetto credito, fino al 2005.

L’assistito, tuttavia, all’esito del rapporto, non ha pagato i compensi professionali del patrocinatore.

Quest’ultimo, allora, ha chiesto e ottenuto dal tribunale competente, l’emissione di un decreto ingiuntivo per il recupero del proprio credito.

A seguito dell’opposizione proposta verso detto provvedimento, però, sia in primo grado, sia in secondo, i giudici di merito hanno ritenuto prescritto nel 2001 il diritto azionato dal professionista.

Egli ha quindi promosso ricorso per cassazione, ritenendo che l’attività svolta dal prestatore d’opera in favore del committente si fosse invece esaurita nel 2005.

La pronuncia

Con l’ordinanza n. 21943, pubblicata il 2 settembre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato.

La giurisprudenza di legittimità, in materia di prescrizione presuntiva relativa alle competenze dovute agli avvocati, ha individuato il momento di conclusione della prestazione nell’esaurimento dell’affare oggetto dell’incarico da parte del cliente, che coincide con la pubblicazione del provvedimento decisorio definitivo di un procedimento giudiziale.

Nel caso di specie, i giudici territoriali hanno escluso l’unitarietà dell’incarico con riferimento alle iniziative successive alla causa di merito, finalizzate al recupero del credito nei confronti del soccombente.

Di conseguenza, gli Ermellini non hanno potuto che confermare l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione.

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Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e commerciale, con particolare riferimento al settore real estate.

Con l’ordinanza n. 4306, pubblicata il 14 febbraio 2019, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che, nell’ipotesi di risarcimento dei danni derivanti da circolazione stradale, devono sempre essere riconosciute le competenze professionali per l’attività svolta dal legale in via stragiudiziale.

Il fatto

A seguito di un sinistro stradale, una Compagnia di Assicurazioni ha offerto ai danneggiati una somma a titolo di risarcimento dei danni.

Questa è stata accettata “a titolo di acconto”, avendo i soggetti lesi richiesto un importo maggiore, oltre alla liquidazione delle spese legali per l’attività svolta dal loro difensore.

Di conseguenza, gli stessi hanno adito il Tribunale di Roma per ottenere il soddisfacimento integrale delle proprie pretese.

I giudici capitolini hanno accolto parzialmente le richieste degli attori, condannando solamente l’Assicurazione a pagare un’ulteriore somma a titolo di ristoro per i danni subiti dagli attori.

Sull’appello formulato avverso detta sentenza, la Corte d’Appello di Roma ha respinto, ancora una volta, la domanda di pagamento delle spese legali stragiudiziali. Secondo i giudici di secondo grado, ai sensi dell’art. 9 del Regolamento attuativo dell’indennizzo diretto per danni da circolazione stradale, non sarebbero dovuti compensi per la consulenza professionale perché l’importo offerto dalla Compagnia è stato comunque accettato.

Sul punto, è stato quindi promosso ricorso per cassazione.

La pronuncia

La Suprema Corte ha accolto le richieste dei danneggiati, condividendone i motivi di impugnazione.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, infatti, “in tema di risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, (…) sono comunque dovute le spese di assistenza legale sostenute dalla vittima perché il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero quando essa non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore, dovendosi altrimenti ritenere nulla detta disposizione per contrasto con l’art. 24 Cost., e perciò da disapplicare, ove volta ad impedire del tutto la risarcibilità del danno consistito nell’erogazione di spese legali effettivamente necessarie“.

Le spese legali richieste, pertanto, sono certamente dovute e possono essere liquidate anche in conformità alla consolidata prassi giurisprudenziale secondo la quale le spese legali relative alla fase stragiudiziale devono essere liquidate come spese giudiziali, perché attività puramente strumentale a quest’ultima.

Cass_4306_2019

Avv. Mattia Verza

Laureato in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Verona, dopo aver conseguito l’abilitazione presso la Corte d’Appello di Venezia, è iscritto all’Albo degli Avvocati di Verona. È esperto di diritto civile e diritto commerciale.